Arte egizia

ARTE EGIZIANA

Premessa

Il passaggio, dal neolitico alla successiva età, viene segnata dalla scoperta dei metalli, e dalla sostituzione degli utensili in pietra con quelli forgiati prima in bronzo e poi in ferro. Ma la transizione è segnata da due altri fenomeni notevoli: la nascita della scrittura, e la nascita dei primi grandi imperi.

La prima scoperta permette, come abitualmente detto, di uscire dalla preistoria per entrare nella storia. Non solo la scrittura permette di differire la comunicazione umana nel tempo e nello spazio, ma diviene strumento fondamentale per l’accumulo del sapere. Per costituire quella grande memoria collettiva che sono i libri e le notizie scritte: strumenti principe per la trasmissione del sapere.

Nello stesso periodo vediamo formarsi delle civiltà fortemente caratterizzate: l’impero egiziano, lungo le sponde del fiume Nilo, e l’impero sumero, nella valle tra il Tigri e l’Eufrate. Ad essi, si affiancheranno, nel corso dei secoli successivi, altre civiltà sorte nel bacino del Mediterraneo e nell’Asia Minore: i fenici, i cretesi, gli ittiti, ed altri.

In pratica, dopo la nascita delle nazioni, nascono, in questo periodo, gli stati. Ossia, degli insiemi organizzati politicamente e giuridicamente, per poter regolare le attribuzioni di poteri, l’emanazione delle leggi, l’amministrazione della giustizia e delle funzioni di governo.

Di queste grandi civiltà sorte a partire dal 3.000-4.000 a.C. in poi ci soffermeremo su due in particolare: quella egiziana e quella egea. Da esse infatti sortiranno indicazioni artistiche importanti soprattutto per la nascita dell’arte greca, crocevia fondamentale per la nascita di una civiltà artistica occidentale di cui noi siamo i diretti eredi.

Cronologia dell’arte egiziana

L’antico Egitto ha conosciuto fenomeni di civilizzazione già a partire dall’età paleolitica. Ma è solo intorno al 3.000 a.C. che compare la grande unità statale governata dai faraoni, quando i due regni dell’Alto e del Basso Egitto vengono unificati in un unico grande impero. Da questo momento la storia dell’antico Egitto viene suddivisa in periodi precisi che sono:

  • Periodo Protodinastico (3.000-2.650 a.C.)
  • Antico Regno (2.650-2.200 a.C.)
  • Primo periodo intermedio (2.200-2.040 a.C.)
  • Medio Regno (2.040-1.778 a.C.)
  • Secondo periodo intermedio (1.778-1.570 a.C.)
  • Nuovo Regno (1.570-1.085 a.C.)
  • Terzo periodo intermedio (1.085-712 a.C.)
  • Periodo tardo (712-332 a.C.)
  • Periodo tolemaico (332-30 a.C.)

I periodi di maggiore fioritura artistica sono stati l’Antico Regno, quando sorsero le grandi piramidi e la Sfinge, e il Nuovo Regno, quando sorsero i grandi complessi di Luxor e Karnak. Dalla fine del Nuovo Regno l’Egitto conosce un caos politico che la porta ad una inarrestabile decadenza. Questo periodo si conclude con la conquista dell’Egitto da parte di Alessandro Magno nel 332 a.C. Nei successivi tre secoli governarono sull’Egitto dei sovrani, discendenti di Tolomeo, i origine ellenistica. L’ultima sovrana fu Cleopatra, che non riuscì a sottrarre l’Egitto alla conquista romana, avvenuta nel 30 a.C. con la battaglia di Azio. Dopo questa battaglia e la morte di Cleopatra l’Egitto entra a far parte dell’impero romano, perdendo la sua indipendenza. La riconquisterà solo in età moderna.

In questi 3.000 anni di vita l’antico Egitto ha prodotto un’arte dalle caratteristiche stilistiche molto omogenee e riconoscibili. In effetti, caso unico nella storia dell’arte, l’arte egiziana non ha conosciuto evoluzioni, restando sempre fedele ad alcuni moduli figurativi che vengono fissati agli inizi della sua storia e non vengono più mutati.

In pratica l’arte egiziana contraddice una delle caratteristiche che noi oggi riteniamo imprescindibile all’arte: la creatività. In realtà arte, in questo caso, non può essere sinonimo di “inventiva” ma di “ben fatto”. E ciò che può essere considerato “ben fatto” deve rispondere ad un modello ideale, unico e immutabile per tutti. Come vedremo in seguito, la concezione di un’arte come pratica non creativa era una diretta conseguenza di un sistema politico che lasciava poco spazio alla libertà dell’individuo.

I canoni

La produzione figurativa degli antichi egizi, per restare costante in tutta la sua storia, doveva necessariamente affidarsi a dei «canoni». Con la parola canone intendiamo un insieme di norme codificate, che permettono di dimensionare e proporzionare una forma, sia essa figurativa o architettonica.

I canoni possono derivare da considerazioni diverse, a secondo dell’intento artistico che si vuole raggiungere. Nel caso dell’arte egizia, l’intento è di codificare in maniera costante ed immutabile la forma di rappresentazione, così che questa risulta quasi indifferente alle situazioni particolari, presentandosi come norma assoluta.

La costruzione della figura umana aveva due canoni fondamentali: uno per la pittura e il bassorilievo, uno per la statuaria a tutto tondo. Nell’immagine bidimensionale l’uomo, come abbiamo visto, veniva sempre rappresentato con una stilizzazione fissa: alcune parti erano in vista frontale (il busto e l’occhio) altre in vista di profilo (gli arti e il viso). Per la costruzione dell’immagine ci si serviva di un reticolo, ovvero di una maglia di linee che definivano un campo quadrettato. Tale reticolo ha subìto un’evoluzione, passando da un canone antico, che prevedeva 18 quadretti in altezza, ad un canone tardo, che aumentò i quadretti a 22.

Disegnato il reticolo sul campo in cui andava posta la figura, il canone fissava le norme per realizzare l’immagine umana. Nel canone tardo, il piede aveva un’altezza pari ad un quadretto, ed una lunghezza pari a 3,5. Se la figura era in stato di quiete, la distanza tra le estremità dei due piedi era pari 4,5 quadretti, se invece era in movimento questa distanza diveniva di 10,5 quadretti. Così, seguendo le altre linee della maglia, il canone fissava che il busto doveva attaccarsi alle gambe in corrispondenza della linea n. 12, mentre il collo si attaccava al busto in corrispondenza della linea n. 19, e così via. Fissate quindi tutte le regole per utilizzare la maglia del reticolo, il proporzionamento della figura avveniva in maniera automatica, con il risultato di consegnarci immagini sempre identiche del soggetto umano.

Nel caso invece della costruzione scultorea della figura umana, i problemi da affrontarsi erano diversi. Eliminata la tecnica di ribaltare le parti del corpo su un unico piano, restava consistente il problema dell’equilibrio della scultura. È infatti da tener presente che la figura umana, rappresentata in posizione eretta, richiede la costruzione di un solido sviluppato in altezza avente una esigua base d’appoggio. Per ovviare a tale problema gli egizi adottarono alcuni accorgimenti particolari. La figura veniva sempre posta in posizione «stante». Con tale termine si intende che la figura ha le due gambe leggermente divaricate. In tal modo, ponendo un piede avanti ed un indietro, le due gambe formavano un triangolo, che, oltre ad allargare al base d’appoggio, contribuiva alla staticità della statua nel piano perpendicolare al corpo. Per garantire la staticità anche nel piano parallelo, il corpo veniva rappresentato in posizione perfettamente simmetrica, così da distribuire equamente i pesi rispetto all’asse centrale della figura.

In molti casi tali problemi venivano più semplicemente risolti con la rappresentazione delle figure in posizione seduta, nel qual caso i problemi di staticità risultano quasi inesistenti, dato che il complesso scultoreo può usufruire di una base d’appoggio più ampia della proiezione sulla base dell’intera figura. Da rilevare, infine, che molte sculture egizie venivano realizzate con una specie di compromesso tra il tutto tondo e il bassorilievo. In tal modo, la modellazione della figura, specie nelle parti retrostanti, non veniva realizzata, così che molte statue pur avendo un aspetto a tutto tondo, conservano l’ancoraggio al blocco unico dal quale sono state scolpite. Anche in questo caso, l’espediente favoriva una maggiore compattezza della figura ed una più ampia base d’appoggio, utili ad un più stabile equilibrio della statua.

Arte e potere

La civiltà dell’antico Egitto, pone un problema interessante alle arti visive: il rapporto con il potere. Lo stato egiziano era impostato su una monarchia fortemente autoritaria. Anche la religione era detenuta da caste sacerdotali aristocratiche e dogmatiche. In una società, quindi, che non riconosce il valore della libertà individuale, neanche l’artista può essere libero, e non può quindi esercitare la sua creatività per affermare la propria visione personale ed individuale.

La produzione artistica, in questa società, era espressione di un potere forte. E come tale, non potendo avere caratteri di creatività individuale, doveva attenersi alle formule stereotipe della tradizione, necessarie a perpetuare l’immagine di potenza del faraone, e del suo impero.

Anche questa è una costante che si ritroverà nelle culture successive: ogni qualvolta l’arte viene prodotta in un regime di tipo dittatoriale, non ha mai caratteri creativi. Anzi, la creatività diviene elemento considerato negativo, da eliminare perché non funzionale al controllo delle coscienze e delle libertà individuale, che il potere dittatoriale persegue.

L’arte egiziana rimane, per quanto detto, un fenomeno abbastanza singolare. Per tremila anni, dal suo sorgere al suo tramontare, ebbe caratteristiche pressocché uguali. La figura umana venne disegnata sempre alla stessa maniera. Maniera decisamente caratteristica, basata su una contemporanea visione di profilo (per gambe, braccia e viso) e frontale (per il busto e l’occhio). Questo modo, che denuncia palesemente il suo antinaturalistico, nella sua immutabilità, finisce per funzionare al pari di un segno: è cioè un significante, che, con la sua forma immodificabile, esprime sempre il medesimo significato.

In sintesi, considerando che la scrittura geroglifica egiziana, al pari di tutte le scritture ideogrammatiche, conserva ancora un legame con la significazione visiva (e non fonetica, come nelle nostre lingue), si può dire che, nella cultura egiziana, non fosse molto distante la differenza tra scrittura ed immagini. Segni e disegni, hanno la medesima radice ed il medesimo fine: la comunicazione.

Arte aulica e arte popolare

Nell’antico Egitto, non tutta la produzione artistica era probabilmente diretta alla rappresentazione del potere. L’attività degli artisti era rivolta anche ad un mercato più ampio, quello dei dignitari e dei notabili, ed alla esportazione. Qui, pur nelle poche testimonianze ritrovate, è possibile notare una espressione più immediata e popolare. In pratica, già nell’antico Egitto, veniva diversamente considerata l’arte se aveva un fine aulico, o popolaresco. Nel primo caso, le esigenze della ufficialità venivano espresse nella grandezza monumentale, nella fissità della tradizione, nelle rigide simmetrie. Nel secondo, l’arte acquistava maggiore libertà ed un intento narrativo superiore. Gli oggetti e le rappresentazioni hanno un carattere più intimo, e raccontano i fatti, eroici o grotteschi, della vita.

L’arte aulica ha, nei confronti della narrazione, un atteggiamento duplice. Può accettare ed utilizzare la narrazione, se crede nella storia (ed è quanto avviene nell’arte romana, ed in quella occidentale in genere); non utilizza la narrazione, se il potere non si legittima sulla storia: cioè sulla grandezza dei fatti del passato. Ed è quanto avviene, in genere, nelle mentalità politiche orientali. In questo caso, la storia viene vista, anzi, come qualcosa di negativo. La storia sono le modificazione nel tempo. Un potere come quello egiziano, si fondava invece sul concetto di immodificabilità nel tempo. La storia è un pensiero dinamico: si basa sull’evoluzione e sul cambiamento. Chi detiene il potere, per le esigenze della sua conservazione, tende a negare la storia come evoluzione e cambiamento. E così, anche l’arte, doveva affermare il principio che il tempo era immutabile. Il futuro, non era suscettibile di potenzialità diverse, perché l’arte del passato e del presente rappresentavano l’immagine di un potere senza modificazioni. Sempre uguale a se stesso.

La tavoletta di Narmer

La tavoletta di Narmer, (ca 3.100 a.C.) da Hierakonopolis, schisto, alt. cm 64, Museo Egizio, Il Cairo.

La funzione pratica di questa opera non ha finalità estetiche: la tavoletta serviva a preparare i cosmetici che le donne usavano per abbellire gli occhi. Nel cerchio centrale, formato dai colli intrecciati dei due leoni, veniva impastata la polvere del minerale di malachite, usata per colorare gli occhi di verde. Un oggetto di uso quotidiano che però, in questo caso, diviene anche un pretesto per un racconto storico e una celebrazione di conquista. Questa tavoletta, su entrambe le facce, celebra la vittoria del re Narmer, sovrano dell’alto Egitto, sul re del basso Egitto, vittoria che portò all’unione del paese in un unico regno.

Siamo quindi proprio agli inizi della millenaria storia dell’impero egiziano, e questo primo documento artistico già mostra tutti i caratteri stilistici che saranno costanti nella produzione successiva.

Iniziamo ad osservare la faccia anteriore. I due leoni, con i colli allungati a dismisura, nel loro intrecciarsi simboleggiano l’unione del basso e dell’alto Egitto. Da notare che l’immagine di due leoni che si affrontano è usato come simbolo di regalità già nella cultura sumerica, di cui forse quella egiziana è agli inizi tributaria. Nella fascia superiore viene rappresentata una scena di battaglia. Il faraone si riconosce, oltre che per il copricapo, per la sua notevole statura. Lo affiancano due generali del suo esercito, e seguono quattro soldati che procedono esponendo delle insegne militari-religiose. Si noti come l’altezza diminuisca in relazione all’importanza del personaggio raffigurato: il faraone è gigantesco, di statura nettamente inferiore sono i generali, mentre quasi dei nani sono i semplici soldati. È questa una concezione simbolica e non naturalistica dell’immagine che dà luogo a quella che definiamo «prospettiva gerarchica»: i personaggi aumentano o diminuiscono di altezza non per le naturali leggi ottiche legate alla distanza dal punto di osservazione, ma per l’importanza del personaggio nel contesto rappresentato.

I soldati dell’esercito sconfitto sono rappresentati stesi a terra, decapitati, con la testa collocata tra le gambe. Questi soldati decapitati sono visti ovviamente dall’alto in basso, quindi il piano che il contiene è un piano orizzontale. Ciò crea un evidente contrasto visivo con il piano che contiene l’esercito vincitore che è un piano verticale. L’apparente incongruenza ottica ci fa quindi meglio comprendere come queste immagini sono costruite per considerazioni concettuali e non visive.

Nella fascia inferiore vediamo infine il re Narmer, rappresentato in sembianze di toro, che abbatte le mura della città nemica e contemporaneamente schiaccia il re avversario.

Nella faccia posteriore della tavoletta la gran parte dello spazio figurativo è occupato dal ritratto del re Narmer che sottomette il re avversario. I canoni figurativi della rappresentazione del corpo umano sono qui espressi già nella sua forma più canonica. Si notino le innaturali e impossibili torsioni date ai corpi, sia del re sconfitto sia dei due nemici vinti nella fascia inferiore: torsioni che nascono solo dal voler a tutti i costi rispettare il canone rappresentativo con il busto frontale, mentre le gambe e la testa sono visti di profilo.

In conclusione quest’opera, che si colloca agli albori dell’arte egiziana, ci fornisce già le indicazioni precise di cosa sarà l’arte per gli egiziani: un linguaggio codificato dove le figure, tendenzialmente antinaturalistiche, sono da intendersi più come segni linguistici che non come immagini reali.

Il libro dei morti

Libro dei morti, (ca 1500 a.C.) part., papiro, Museo Egizio, Torino

Il «libro dei morti» era un papiro sul quale erano raccolti testi religiosi e magici: esso serviva al defunto per presentarsi preparato al cospetto del tribunale di Osiride. Secondo la religione egizia, il defunto andava incontro, dopo la morte, ad una nuova vita eterna. Ma il preludio a questo passaggio era la purificazione dai peccati e il giudizio di Osiride. Al suo cospetto si presentavano le anime dei defunti e venivano interrogate da 42 divinità presenti al giudizio. Il «libro dei morti» conteneva in pratica le risposte da fornire a queste domande.

In questo frammento si vedono appunto due defunti che si presentano al cospetto di Osiride. Sono un uomo e una donna. Da notare come sia presente l’uso, pressoché costante in tutto il mondo antico, di distinguere il sesso delle persone con la diversa colorazione della pelle: le donne hanno un colorito più chiaro e pallido, a differenza degli uomini che sono invece colorati con tinte più scure e rossastre. I due defunti sono in atteggiamento implorante, dopo aver deposto ai piedi della divinità seduta un’offerta di cibi e bevande.

Il papiro è qualcosa di intermedio tra un testo illustrato e un racconto a fumetti. In realtà è qui possibile cogliere in maniera evidente lo spirito dell’arte egiziana: immagini e testo non hanno valore oppositivo ma complementare. In pratica sia le immagini sia il testo svolgo un ruolo analogo, che è quello di ridurre in simboli visivi l’insieme di concetti che compongono un discorso o un racconto.

Da notare, ovviamente, alcune caratteristiche stilistiche che accompagnano tutta l’arte egiziana. Le immagini sono costruite sempre da un tratto lineare molto netto e preciso. In pratica è al disegno di contorno che si affida la costruzione dell’immagine. La colorazione è effettuata sempre con campiture uniformi, senza alcun effetto di chiaroscuro. Ciò rende ovviamente le immagini piatte e schiacciate, senza alcuna preoccupazione per la resa tridimensionale dei volumi. Le immagini sono rappresentate sempre su un unico piano di rappresentazione verticale: manca qualsiasi effetto di profondità spaziale.

Scena di guado

L’arte egiziana è spesso piena di sorprese che contraddicono l’idea di un’arte fissa e immutabile. In questa scena di guado si avverte infatti una concezione dell’immagine decisamente più naturalistica. I due schiavi che trasportano gli animali sono molto più naturali e spontanei di molte altre immagini egiziane note. Ma sono soprattutto i tre buoi, collocati su diversi piani di profondità, che danno alla scena un senso di verità che rende l’immagine molto aderente al reale. In questo caso appare evidente come l’artista, allontanandosi dagli schemi ufficiali, acquista maggior libertà di espressione, giungendo spesso a felici risultati stilistici.

Da notare la rappresentazione invece simbolica e antinaturalistica del fiume che è disegnato come un piano verticale composto da una successione di linee spezzate. L’effetto che produce è però efficace nel dare la sensazione della rifrazione delle immagini viste attraverso l’acqua.

Senneref

Ritratto di Senneref e della moglie (ca 1450 a.C.) granito nero, alt. m 1,20, Museo Egizio, Il Cairo

Il gruppo scultoreo è uno degli esempi migliori della statuaria egiziana. Raffigura il principe Senneref insieme alla moglie e alla loro figlia. Come si può notare il gruppo è un qualcosa di intermedio tra una scultura a tutto tondo e un altorilievo: si potrebbe definire un altorilievo sagomato su tre piani: due verticali, quelli del busto e della parte inferiore delle gambe, e uno orizzontale, quello della parte superiore delle gambe. La schematicità con cui sono realizzati i volumi è molto evidente: le forme tendenzialmente geometrizzate riducono l’effetto naturalistico dell’insieme. Da notare ovviamente la notevole sproporzione tra la figlioletta e i genitori: anche questa è una conseguenza della prospettiva gerarchica utilizzata dagli egiziani. Da notare anche la scelta compositiva rigidamente simmetrica: i due coniugi hanno pesi visivi assolutamente equivalenti e anche le loro braccia compongono uno schema simmetrico: il braccio interno abbraccia il coniuge mentre quello esterno e rigidamente posato sulla gamba.

In questo caso appare evidente come la ufficialità della rappresentazione porta ad un’opera che rispetta tutti i canoni tradizionali proponendosi come statica e rigida formula figurativa.

Ramesse III

Ramesse III, (ca 1150 a.C.), granito rosso, alt. m 1,69, Museo Egizio, Il Cairo

In questo gruppo scultoreo abbiamo delle figure in posizione eretta. Come si può notare esse hanno i piedi sfalsati: uno è posto in avanti ed un altro in posizione arretrata rispetto all’asse verticale del corpo. Questa posizione viene chiamata «stante». Non è quindi una posizione di movimento ma di riposo. La ragione di sfalsare i piedi è essenzialmente statica. Il corpo umano è un solido che, posto in posizione verticale, ha una piccola base di appoggio: ciò crea inevitabilmente dei problemi di equilibrio. La posizione stante risolve questi problemi: in questa posizione le gambe creano un triangolo di base che garantisce l’equilibrio sul piano trasversale: in pratica la figura non può ribaltarsi in avanti o indietro. Sul piano parallelo l’equilibrio veniva invece garantito dalla simmetria: la figura non si ribalta né a destra né a sinistra perché il corpo distribuisce i pesi in parti uguali lungo l’asse verticale. Per questo motivo le braccia scendono sempre rigide e parallele lungo i fianchi: una loro diversa posizione porterebbe ad una alterazione dall’equilibrio dei pesi rispetto all’asse verticale.

Questo gruppo scultoreo ha una sua complessità che lo rende decisamente originale nell’ambito della produzione egizia. Ad essere raffigurato è il faraone Ramesse III mentre viene incoronato da due sacerdoti che hanno le sembianze delle divinità Horo e Seth. Il gruppo è di un’ardita composizione in quanto lo scultore articola le tre figure su piani di giacitura perpendicolari. Ciò porta ad una spazialità sicuramente più complessa, dove anche i vuoti svolgono un ruolo compositivo evidente. Tuttavia è facilmente decifrabile lo schema di base: le figure dei due sacerdoti, allungando il braccio per sorreggere il copricapo del faraone, rafforzano l’equilibrio del gruppo. Le braccia dei sacerdoti sono quasi due ponti di raccordo tra le loro verticali e la base di appoggio: in questo modo la figura del faraone si trova quasi ad essere incorniciata, e sostenuta, da un perfetto rettangolo.

L’architettura egizia

La civiltà egiziana, sorta lungo le rive del fiume Nilo 4000 anni prima di Cristo, ci ha lasciato alcuni dei monumenti più grandiosi dell’antichità: le piramidi. Queste gigantesche costruzioni furono l’evoluzione dei primi recinti sepolcrali utilizzati dai faraoni: essi erano delle piattaforme quadrangolari e prendevano il nome di «mastaba». Più mastaba sovrapposte, crearono la prima piramide a gradoni, quella di Saqqara. Successivamente la piramide prese la sua forma canonica, di perfetto prisma a quattro facce triangolari.

Una piramide è tuttavia un edificio di natura particolare. Destinato a sepoltura, esso si componeva di ambienti interni, quasi scavati come cunicoli in una montagna, di impenetrabile accesso. Le piramidi, pertanto, si presentavano come degli oggetti giganteschi, più che non architetture vere e proprie. Ma il loro innalzarsi, maestose e grandiose, in un paesaggio uniformemente piatto, segnava il territorio della civiltà egizia con dei segni imponenti e altamente simbolici.

Le piramidi furono edificate in un periodo compreso tra il 3000 e il 2000 a.C., successivamente caddero in disuso, ed i faraoni, per le loro sepolture edificarono templi con colonne papiroformi (cosiddette perché le colonne avevano forma di papiri stilizzati). Adottarono, quindi, il sistema trilitico, ma secondo la loro visione, con proporzioni e misure gigantesche. Sale immense, erano piene di colonne altissime a distanze così ravvicinate da creare spazi singolarmente misteriosi. Ricordiamo che nel sistema trilitico, gli elementi orizzontali, se sono in pietra, non possono essere di lunghezza eccessiva, altrimenti non potrebbero sopportare neppure il loro peso. Pertanto una copertura orizzontale in pietra può realizzarsi solo con elementi non molto lunghi, e che necessitano pertanto di sostegni ravvicinati tra loro. Da qui, quindi, il vincolo per gli egiziani di infittire di colonne gli ambienti dei loro templi.

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