La Palermo del 400

A partire dagli anni venti del secolo vanno ricercati i termini di una età di Alfonso d’Aragona a Palermo. Di ciò non vi è grande evidenza storiografica poiché sono i decenni che precedono la presa di Napoli del 1443, quando la statura culturale del personaggio prese ad assurgere ad estrema grandezza, corrispondente all’appellativo di “Magnanimo” che gli sarebbe stato tributato dai contemporanei e che racchiudeva i significati umanistici del termine latino: grandezza d’animo, declinata dal Pontano in latino umanistico come appellativo regale. A Palermo, rimane traccia del percorso culturale di Alfonso nell’autunno del Medioevo, con ciò intendendo la chiusura della stagione gotica in cui intravedere in modo latente, lo schiudersi della successiva. Il sovrano fa il suo primo ingresso in città l’11 febbraio del 1421. La storiografia tramanda che in quella occasione il Sovrano “concesse alla città di Palermo di farsi il molo”, il che conferma l’importanza ad esso riconosciuta sia sul piano dello sviluppo in senso commerciale ma probabilmente anche simbolico dell’identità cittadina, preludio al fiorire negli anni seguenti di una attività edificatoria intensa di chiese a presidio del molo e della Cala. Questa collocazione della Sicilia e di Palermo nella vasta koiné del Gotico internazionale viene ribadita, a partire dal 1415, dai nuovi legami politici con Napoli e il regno di Aragona: in architettura la lezione del gotico catalano trova la sua prima raffinatissima espressione nel portico meridionale della Cattedrale, ed è poi ripresa, alla fine del secolo, da Matteo Carnilivari (palazzo Abatellis, Ajutamicristo, chiesa di S. Maria della Catena). Entro i primi anni del Cinquecento sarebbero state edificate le chiese di Santa Maria della Catena, di San Giovanni dei Napoletani, di Santa Maria di Porto Salvo, di San Sebastiano. Databile negli anni quaranta del secolo, il ruolo centrale nella politica culturale di Alfonso per la città di Palermo, dal sovrano posto a capo delle maggiori imprese da lui stesso avviate: l’ospedale grande e il molo, già ricordati, cui si aggiunsero le precise disposizioni e stanziamenti per la cura dei templi di età normanna, quali “La Martorana”, per rendere visibile la continuità del potere regio in Sicilia. Nell’arco del secolo e del successivo l’araldica della Casa d’Aragona si sarebbe diffusa all’interno della Cappella sacri palacii regi Panormi, Palatina, a mosaico e nel soffitto ligneo in pittura. La Cattedrale, altro monumento simbolo della originaria monarchia normanna e della sua legittimazione papale, si arricchisce in epoca alfonsina di un “segno”, il portico a tre fornici sul fianco meridionale. La nuova architettura determina la creazione del nuovo prospetto della Cattedrale foriero dell’ampliamento di “lo plano di la majuri ecclesia”. Il linguaggio figurativo dell’opera, si integra, in parte recuperando, le nobili preesistenze del monumento normanno e le tre insegne araldiche scolpite a rilievo nella parte centrale, ove compare la Casa d’Aragona fra l’insegna della Chiesa Palermitana e quella del Senato cittadino, esplicitano il messaggio. La mostra marmorea del portale d’accesso, concepita per dare continuità all’aulico passato di marmi e mosaici, e la porta lignea riccamente intagliata, avevano dato avvio già negli anni venti alla operazione di innesto tardo gotico sul monumento normanno. Sotto il vescovo Beccadelli de’ Bologna, cui si attribuisce la definizione del portico, sarebbe sorto il nuovo Palazzo dei Prelati, posto a fronteggiare la Cattedrale e sottolineato nella sua mole da un sobrio portale ad arco ribassato e da una grande trifora angolare con ricca trina a intaglio su alte ed esili colonnine. Il segno del sovrano aragonese, venuto in Sicilia e ad essa più attento nel periodo precedente alla presa di Napoli, durante l’“incubazione” del successivo esplicito indirizzo culturale rinascimentale, si espresse a Palermo in una varietà di indirizzi che giunsero a compimento nel corso degli anni, quando il Sovrano sedeva ormai sul trono di Napoli. Dal punto di vista urbanistico e artistico monumentale furono interessati i due estremi dell’asse di sviluppo della città: a nord il nuovo molo e a sud la parte alta del Cassaro con l’Ospedale Grande e il portale meridionale della Cattedrale. Alfonso tornò a Palermo nel 1431 e in questa occasione trasse impulso l’esecuzione della volontà già espressa dal Sovrano, di creare l’Hospedale Grande e Nuovo per riunire in un’unica struttura i piccoli ospizi presenti in città. L’istituto ospedaliero ebbe sede nella sontuosa trecentesca dimora appartenuta agli Sclafani, grande mole architettonica che aveva rivaleggiato con lo Steri chiaromontano all’estremità nord del Cassaro e, a connotare in senso collettivo la nuova destinazione come ospedale, vi fu eseguito in una delle pareti del grande atrio porticato, il monumentale affresco del Trionfo della Morte. Le fonti legano l’intera storia dell’Ospedale Grande e Nuovo alla volontà del sovrano e dunque anche l’indicazione, di questa opera così impegnativa per grandezza, per complessità iconografica e caratteri formali che ne evidenziano l’estraneità a ciò che esprimeva la pittura a Palermo e nella Sicilia del tempo. Oggi custodito nella Galleria regionale di Palazzo Abatellis, il grande affresco, rimane ancora ampiamente misterioso riguardo al possibile autore e inoltre privo di alcun termine di paragone se non per taluni aspetti, ora l’iconografia, ora lo stile esecutivo di alcune parti, ora i caratteri formali di altre, in un ampio panorama di riferimenti al tardo gotico internazionale in cui rifluivano elementi di cultura borgognona-provenzale in un insieme di impronta pittorica catalana, che a tutt’oggi non trova possibilità di confronti se non parziali e che può considerarsi emblematica di un passaggio culturale di snodo fra due epoche. In pittura e arti applicate il passaggio annovera una perdurante fase di transizione, rappresentata da artisti e opere non sempre con certezza abbinabili tra loro. Si assiste all’introduzione di nuovi spunti (rigore formale, ricerca plastica e spaziale) all’interno di tipologie tardo gotiche. La croce dipinta della Cattedrale di Cefalù, le miniature del Breviarium del Vescovo Beccadelli e il così detto Polittico di Corleone della Galleria Abatellis ne offrono eminente testimonianza in pittura. Le opere citate hanno tutte un impianto tardo gotico: forme architettoniche cuspidate o lobate, fondi oro, grafismi decorativi, eppure la figura umana vi appare centralizzata e dalle forme regolari, le espressioni non stereotipate. In pittura il “fenomeno” Antonello, non ebbe esito, se non echi tardivi, nella pittura a Palermo. C’è da dire infatti che la pittura di Antonello non si determina a Palermo ma bensì fra la Sicilia orientale e Napoli soprattutto, rispetto alla cui centralità, Palermo, come si è visto, aveva costituito un importante antefatto fino allo schiudersi degli anni quaranta del Quattrocento. La vicenda di Antonello diviene emblematica della Sicilia incubatrice di cultura figurativa che evolve altrove. I dipinti di Antonello presenti nelle pubbliche raccolte di Palermo e Cefalù, raccontano infatti un rapporto con i luoghi che prende avvio in epoca tarda, Le cuspidi furono acquisite intorno alla metà del secolo da provenienza ignota. Della Annunciata si sa che appartenne alla famiglia dei Baroni Colluzio, di antica origine iberica ma citati a Palermo nel palazzetto di famiglia all’Albergheria, a partire dal Settecento inoltrato. L’opera giunse al pubblico museo di Palermo nel 1906, a conclusione di un percorso, condotto con tenacia dall’allora direttore Antonino Salinas e già intrapreso negli anni precedenti da Gioacchino Di Marzo e Vincenzo Di Giovanni, altra figura di prelato siciliano di fine Ottocento, erudito e storiografo. Il dipinto è cronologicamente riferibile alla stagione della maturità, conclusiva del percorso di Antonello, fra Venezia, ove si recò nel 1475 e Messina, sua città natale, ove nel 1479 dettava il suo testamento. La storia museale delle opere di Antonello fra Palermo e Cefalù è importante per spiegarne l’assenza di legami con la coeva pittura locale. La declinazione del tardo gotico fornisce il proprio ideale di eleganza alla società aristocratica, una corrente più vicina all’arte marchigiana (penetra forse attraverso il soggiorno di un pittore a cui non è possibile ascrivere con certezza alcuna opera, Gaspare da Pesaro) influenza più da presso alcuni artisti locali come Tommaso Ruzzolone. Più innovativo è invece il panorama presentato dalla scultura: subito dopo la metà del secolo, segna una svolta netta e radicale fra un “prima” e un “dopo”. Si può dire che il Rinascimento in scultura non fu il frutto di una “maturazione” né di una “elaborazione”, ma bensì di una “importazione dovuta a maestri lombardi e carraresi”. negli anni successivi al 1458 Palermo “importa” la scultura, o meglio gli scultori rinascimentali al passo con la cultura toscana. In scultura la svolta radicale determinata dalle personalità di Francesco Laurana e soprattutto Domenico Gagini, a capo di una vera e propria florida azienda familiare, soppiantò le prove di scultura più dipendente dai modelli pittorici coevi di ambito più “mediterraneo” che centro italiano. L’arrivo in tempi diversi di Domenico Gagini e Francesco Laurana (entrambi avevano lavorato a Napoli) introduce a Palermo il linguaggio figurativo dell’Umanesimo, più colpo e raffinato nel caso del Laurana, come ad es. la Eleonora d’Aragona che entra in relazione con le proporzioni e la equilibrata simmetria dell’Annunciata di Antonello, che tuttavia si distingue per la forza comunicativa e naturalezza da ritratto e al riguardo è stato osservato che non sono noti ritratti di donne eseguiti da Antonello, ma tuttavia egli ritrasse le donne in ogni Vergine col Bambino e in ogni Annunciata. Anche se non di rado supportato dall’opera di aiuti, maggiormente popolaresco quello del Gagini, la cui fiorente bottega diffonderà in tutta l’isola, soprattutto con le opere del figlio Antonello, una declinazione sottilmente decorativa della maniera rinascimentale. Tra le sue opere più importanti si ricordano, trittico marmoreo raffigurante lo Sposalizio mistico di Santa Caterina fra i Santi Nicola e Michele della chiesa della Magione; il Busto di Pietro Speciale di Domenico Gagini, con la sua fermezza di espressione, richiami il San Gerolamo nello studio di Antonello oggi alla National Gallery di Londra. In oreficeria i calici e reliquiari attribuiti a Pietro di Spagna, già incontrato nel 1421, riducono le decorazioni entro contorni definiti e gli elementi aggettanti sembrano sottendere una esigenza di regolarizzazione delle forme.

 

Pittura

 

La figura che giganteggia nel panorama culturale del primo Rinascimento in Sicilia è Antonello da Messina che con la sua ricca formazione, tra Napoli e Venezia (forse Milano) e, non in modo diretto, le Fiandre, dimostra la circolazione d’idee che caratterizzava l’epoca. I suoi lavori per le committenze isolane e il suo definitivo ritorno in patria (dopo l’esperienza veneziana) nel 1476, rappresentarono il primo affermarsi nell’isola della pittura rinascimentale, grazie anche ad un’affollata bottega che introdusse nella produzione tradizionale il nuovo gusto per la figura umana, il genere pittorico del ritratto e un nuovo ruolo dell’artista non più solo anonimo artigiano. Tra i suoi famigliari che continueranno la bottega (il figlio Iacobello e i nipoti Antonio di Saliba, Pietro di Saliba e Salvo d’Antonio) e tra i suoi allievi e seguaci diretti e indiretti (Alessandro Padovano, Giovanni Maria Trevisano, Giovannello da Itala, Marco Costanzo, Antonino Giuffré, Alfonso Franco, Francesco Pagano), alcuni dei quali furono attivi anche in Veneto, nessuno divenne un grande artista, ma la loro produzione, che comprendeva anche copie di Antonello, si diffuse in Sicilia e Calabria, dove sono molte le opere della scuola di Antonello, anche se di difficile attribuzione, vista la mancanza di studi su molti pittori della sua cerchia. Il più evoluto degli antonelliani fu Salvo d’Antonio che aggiornò il suo stile con influssi non soltanto veneziani ma anche ferraresi. Palermo l’ambiente pittorico fu meno vivace e gli artisti maggiori sul finire del secolo furono Tommaso De Vigilia, attardato su motivi catalani, e Riccardo Quartararo, formatosi a Napoli, che influenzò molti artisti locali minori.

 

Antonello da Messina

 

L’artista di maggiore spicco nell’ambito del Quattrocento siciliano è, senz’altro, Antonello da Messina. Antonello da Messina nasce attorno al 1430 a Messina, in Sicilia, da Giovanni de Antonio, di mestiere scalpellino, e Garita (probabile diminutivo di Margherita).  Egli viaggiò molto, venendo a contatto con la nuova e contemporanea arte rinascimentale. La sua formazione artistica è il prodotto dei suoi viaggi a Napoli, Venezia e le Fiandre. Antonello da Messina è stato infatti il pittore che, nel Rinascimento, ha saputo far incontrare il nord e il sud dell’Italia, dando vita a uno stile molto originale (fu probabilmente il più grande ritrattista del Quattrocento) con suggestioni provenienti anche dal resto d’Europa. Stando alla ricostruzione di Giorgio Vasari, Antonello ricevette la sua formazione a Roma e a Napoli, e in particolare sarebbe stato decisivo l’incontro con un dipinto di Jan van Eyck, che faceva parte delle collezioni di Alfonso d’Aragona e che avrebbe spinto il giovane Antonello a studiare e imparare la pittura a olio. Dopo aver lasciato la terra natale, la Sicilia, studiò a Napoli nella bottega di Colantonio, dove ebbe modo di entrare a contatto con la pittura fiamminga, francesi, provenzali e spagnoli che operavano nella città partenopea, dalla quale riprese l’attenzione al dettaglio e il naturalismo. A queste caratteristiche unì le volumetrie e il rigore di Piero della Francesca e, in seguito a un viaggio a Venezia avvenuto nel 1475, anche la delicatezza dei colori veneti. La caratteristica diffusione delle idee e innovazioni del periodo, lo portò a specializzarsi soprattutto sui ritratti e sulla figura umana, in genere. L’artista fu un grande innovatore, avendo portato in Italia i caratteri della ritrattistica fiamminga. Il viaggio nella ritrattistica antonelliana potrebbe cominciare dal Ritratto d’uomo del 1465 circa che si trova al Museo Mandralisca di Cefalù e che a detta degli studiosi dovrebbe essere il primo ritratto eseguito da Antonello da Messina, anche se non abbiamo certezze in merito. L’osservatore è colpito dall’espressione quasi ironica del personaggio, col suo sorriso che sembra quasi canzonatorio: è la dimostrazione di come Antonello volesse coniugare, alla verosimiglianza fisica, una altrettanto approfondita analisi psicologica del soggetto raffigurato. Un’altra delle opere più interessanti di Antonello è l’Annunciata della Galleria Regionale di Palazzo Abatellis a Palermo: è un ritratto a mezzo busto che emerge dal fondo scuro, con una figura caratterizzata da volumetrie pierfrancescane, ma è interessante anche notare le mani, con il gesto della mano sinistra, molto naturale, che tiene fermo il velo all’altezza del seno, mentre l’altra sembrerebbe rivolgersi allo spettatore, forse un gesto di sorpresa nei riguardi dell’arcangelo Gabriele che lo spettatore non vede, ma che occorre immaginare sia appena arrivato nella stanza di Maria. Una mano che suggerisce movimento, un elemento che conferisce dinamicità a un’opera che senza questo particolare forse non avrebbe la stessa portata innovativa (leggi qui un dettagliato approfondimento sull’Annunciata di Antonello da Messina). Dopo aver realizzato opere per una committenza privata, nel 1476, fece ritorno in Sicilia, dove aprì una rinomata bottega d’arte, con diversi allievi, che iniziò a diffondere nell’isola il nuovo gusto e le nuove tecniche. La copiosa produzione della bottega si diffuse sia in Sicilia che in Calabria, anche se molte opere mancano di una precisa attribuzione tra gli allievi. Il più talentuoso tra i suoi seguaci fu Salvo di Antonio, che viaggiò in Italia, soggiornando soprattutto a Venezia e quindi, fu molto caratterizzato dal rinascimento veneziano. Tra i suoi numerosi seguaci vi furono parenti e apprendisti vari. Tra i primi, annotiamo il figlio Iacobello e i nipoti Antonio di Saliba, Pietro di Saliba e Salvo d’Antonio. Tra gli altri allievi, vanno citati Alessandro Padovano, Giovanni Maria Trevisano, Giovannello da Itala, Marco Costanzo, Antonino Giuffré, Alfonso Franco, Francesco Pagano, tutti legati alla scuola antonelliana. Nel Quattrocento palermitano si distinse, invece, il pittore Riccardo Quartaro, di formazione napoletana, che se non eccelse mai come artista, nella sua bottega presero le mosse numerosi artisti “professionisti”, la cui opera dilagò, soprattutto, nella Sicilia occidentale. Antonello da Messina, muore Il 25 febbraio 1479.

 

I Santi Agostino, Girolamo, Gregorio

Sant’Agostino (1472, Antonello da Messina) – Tempera grassa su tavola su tela, 46,5 x 35,5 cm. Galleria Regionale della Sicilia di Palazzo Abatellis, Palermo

 

Antonello da Messina San Girolamo, 1472-1473 tempera grassa su tavola trasportata su tela, 39 x 31 cm Galleria Regionale della Sicilia di Palazzo Abatellis, Palermo.

 

Antonello da Messina San Gregorio Magno, 1472-1473 tempera grassa su tavola trasportata su tela, 46,5 x 35,5 cm Galleria Regionale della Sicilia di Palazzo Abatellis, Palermo

 

I tre dipinti sono riferibili ad un perduto polittico a più scomparti, ciascuno culminante con una delle tavole cuspidate. Poiché raffigurano tre dei quattro Dottori della Chiesa Occidentale, si ipotizza che in origine vi fosse una quarta cuspide raffigurante Sant’Ambrogio. Altra osservazione riguarda la posa dei personaggi rivolti verso il centro di una ipotetica cuspide centrale di un perduto polittico. Le tavolette furono acquistate per le pubbliche collezioni museali nel secondo Ottocento con la consapevolezza che si trattasse di opere di Antonello da Messina. Il restauro conservativo eseguito nel 1952 in occasione della storica mostra dedicata ad Antonello a Messina, ne comportò il trasferimento dal supporto originario su tavola a quello su tela e ciò per eliminare i fattori di degrado che potessero aggredire la superficie dipinta. A sintetizzare l’importanza delle tre opere vale la odierna esposizione museale a Palazzo Abatellis che le colloca come “anticipo” dell’Annunciata e nello stesso tempo in soluzione di continuità con il polittico della sala che precede, di linguaggio figurativo differente seppure di compatibile cronologia e similare assetto a polittico su fondo oro. Nell’esiguo numero di opere di Antonello pervenute, le tre cuspidi non sono riconducibili a nessuno dei due polittici noti, quello di San Gregorio del Museo Regionale di Messina e l’altro ricomposto fra le due tavole degli Uffizi e l’anta che appartiene alle collezioni del Castello Sforzesco di Milano. Nelle tre tavolette cuspidate è possibile riscontrare quella che poteva essere la cultura di Antonello nei primi anni settanta del Quattrocento, attivo in Sicilia per una committenza tradizionalmente legata ai modelli tardo medievali dei polittici fondo oro a ramages, ove tuttavia introdurre una concezione che già è spaziale e reale nella restituzione ritrattistica e naturale della figura umana che determina uno spazio intorno a sé, in ciò mostrando la conoscenza della pittura fiamminga che aveva potuto approfondire nel corso della sua formazione, fra la Sicilia e soprattutto Napoli con particolare riferimento agli esempi di Petrus Christus ma anche alle tangenze di pittura provenzale.

 

Ritratto d’uomo di Cefalù

Antonello da Messina, Ritratto d’uomo, 1465-1476 circa, olio su tavola di noce, 30,5 x 26,3 cm. Cefalù, Fondazione Culturale Mandralisca.

 

Il dipinto ha accresciuto nel tempo la sua forza comunicativa e “empatica” che trascende dalla necessità di ogni tipo di cognizione storica e artistica per stabilire una relazione con il fruitore. Ciò per diverse ragioni, quali la perfezione esecutiva, l’aura della narrazione circa la sua provenienza dall’isola di Lipari, occultato per secoli nell’anta interna di un armadio di farmacia. Un indubbio elemento di fascino dell’opera risiede nel dato che nella lacunosità e diaspora delle preziose pitture di Antonello, essa costituisce un caso unico di permanenza nella sede fisica dove ebbe inizio la sua storiografia, nella dimora del Barone Mandralisca, odierna sede della omonima fondazione e sede museale. Gli studiosi riferiscono il dipinto alla attività svolta dal pittore a Messina negli anni ‘60-‘70 del Quattrocento, a riprova della esistenza già in loco di una “committenza nell’ambito della borghesia emergente di base mercantile” (Bologna) cui la ritrattistica nuova di Antonello era congeniale e funzionale per la promozione e visibilità di uno status di elite socio culturale. Tutto ciò ancor prima, sottolineano gli studiosi, dello spostamento a Venezia che avrebbe accresciuto la fortuna di Antonello nel ritratto. Il Ritratto d’ignoto presenta già quei caratteri del linguaggio di Antonello che egli avrebbe continuato ad affinare in seguito, applicando la lezione fiamminga sulla resa pittorica in dettaglio della realtà, alla ricerca di una superiore sintesi plastica e volumetrica della figura, cui la luce di provenienza certa e nitida conferisce quella unitarietà e soprattutto quella gran forza e gran vivacità massima negli occhi. In questo dipinto, coglie il sorriso beffardo del soggetto, lo sguardo ironico, l’intelligenza velata, la smorfia beffarda delle labbra. L’artista rappresenta un personaggio sfuggente che passa da uno sguardo ironico ad una smorfia irriverente che lo rende enigmatico. Qualsiasi tratto del volto è una prova di questa ricerca. Antonello vuole mostrare un personaggio non passivo ma in continuo movimento, come se in un attimo attraversassero il volto dell’uomo espressioni diverse. Osservando meglio il soggetto si viene attirati dalla sua affabilità ma contemporaneamente si prova un senso di smarrimento di fronte alla sua ironia. Anche gli abiti sono dipinti con ricchezza di dettagli fino alla impressionante resa degli occhielli e dei bottoni. Ma ciò che colpisce di più è la dinamicità del volto. L’uomo sembra spostarsi mentre osserva lo spettatore che a sua volta rimane in dubbio sulla natura benevola o maligna del soggetto. Mentre si osserva il volto dell’uomo si esplora la sua personalità e si sviluppano congetture fantasiose o verosimili sul suo carattere, sulla sua storia, sul suo ruolo. L’immenso talento di Antonello da Messina si può in parte ammirare in questa storia narrata attraverso le vicissitudini di un volto.

 

Vergine annunciata

Antonello da Messina, Vergine annunciata, 1476-1477, olio su tavola, 45 x 34,4 cm. Palermo, Galleria Regionale della Sicilia.

 

Fu in grado di coniugare la monumentalità e il classico razionalismo della forma dello stile italiano con l’attenzione al dettaglio della pittura fiamminga. Per realizzare il dipinto che ritrae la Vergine, utilizzò una attenta resa prospettica, evidente nella mano in scorcio. Il dipinto ha le caratteristiche stilistiche tipiche delle opere fiamminghe. Maria è raffigurata di tre quarti. Lo sfondo è scuro, mentre la figura isolata e l’atmosfera sospesa sono elementi tipici del lavoro di un pittore nordico, Petrus Christus. Si tratta di un olio in velatura, su tavola di 45 centimetri di altezza e 34,5 cm di larghezza. Antonello da Messina realizzò il dipinto legando i pigmenti in polvere con una sostanza grassa. Vista la natura dei colori, si può già parlare di colori a olio, la cui invenzione, tradizionalmente, si deve ai fiamminghi del Nord Europa. La tecnica è diversa dalla pittura a tempera. Permette di ottenere un chiaroscuro molto sfumato e un passaggio di toni graduali. La possibilità di stendere i colori con velature sottili, permise all’artista di definire le figure nel dettaglio. È per questo motivo che la Vergine ha un incarnato morbido e realistico. Allo stesso modo, si percepisce egregiamente la consistenza tipica dei tessuti. La Vergine raffigurata da Antonello da Messina presenta forme dai volumi ben delineati. In questo vi è una differenza rispetto alle figure fiamminghe, che hanno un carattere più epidermico e particolareggiato. Maria ha un aspetto sicuramente più classico ed equilibrato. La Vergine Maria è rappresentata come una giovane donna, dai lineamenti raffinati, con il capo coperto da un velo del colore del mare di Sicilia. Il momento ritratto la vede alle prese con un immaginario interlocutore, con la mano destra che sembra volerlo frenare. Accennando a un lieve strabismo dello sguardo, il pittore lascia intuire che stia cercando qualcuno, forse proprio l’Arcangelo Gabriele, che sta per annunciarle il suo destino. La scena è dominata dalle mani e dallo sguardo. Il gesto della mano destra è significativo e stravolge quelli che erano stati, fino a quel momento, i classici canoni della rappresentazione dell’evento. La Madonna, infatti, sembra voler trattenere lontano chi le sta davanti (l’osservatore, il pittore o forse lo stesso angelo), come se fosse a conoscenza del suo destino. La mano sinistra, invece, è rivolta verso il petto, nel gesto di chiudere i lembi del velo, con cui difende il proprio pudore e custodisce il bene prezioso che ha dentro.

 

I misteri del quadro di Antonello da Messina

 

Maria ha dinanzi un Magnificat. Per molto tempo si è cercato di capire cosa rappresentassero i segni posti da Antonello da Messina sul libro. Analizzando i punti in rosso, è emerso che il simbolo più evidente rappresenta un carattere onciale, cioè un tipo di scrittura adoperata in codici vergati per i titoli, le rubriche, gli incipit o gli explicit, impiegati in manoscritti dell’epoca come capolettera di capitoli o paragrafi. Si è individuata una “M” di Magnficat. Le scritte nere evidenziano lettere che dovevano comporre alcune frasi iniziali del Magnificat: “Anima mea Dominum, et exultavit spiritus meus in Deo salutari meo”. Vi è anche una nuova rappresentazione dello Spirito Santo, sotto forma di vento. Si nota, nell’Annunciata di Palermo, che le pagine del libro sono sollevate da un soffio di vento. Il vento rappresenterebbe il soffio generante e ispiratore dello Spirito Santo. La Vergine è immersa in uno spazio indefinito. Il leggio, tuttavia, grazie alle fughe prospettiche suggerisce una dimensione geometrica. Si riesce così ad avvertire la profondità dello spazio che si interpone tra l’osservatore e la Madonna.

 

Perché è un quadro rivoluzionario

 

Antonello da Messina fece una scelta innovativa e originale, poiché rappresentò l’Annunciata e non l’Annunciazione. La Madonna guarda davanti a sé, come se già avesse ricevuto la notizia. L’angelo, se fosse presente nella scena, lo si potrebbe pensare al posto del pittore o dell’osservatore. Il messaggero di Dio non necessita di una rappresentazione “tangibile“, poiché è già presente nella Vergine. Con una originale intuizione, il pittore trasforma l’Angelo in una parte della stessa protagonista (forse l’anima o la coscienza). Antonello da Messina, anche non rappresentandolo, ne fa percepire la presenza nel dipinto. Il pittore diede vita a una vera e propria “rivoluzione”. Creò una connessione tra l’osservatore e il dipinto, mostrandoci la Vergine in un contesto narrativo. Un po’ come un abile regista che fa un primo piano sul volto e sulle mani. I motivi iconografici dell’epoca (già utilizzati da Antonello da Messina per l’Annunciazione di Palazzolo Acreide del 1474), scomparvero. Non ci sono né l’angelo, né la colomba dello Spirito Santo, né il giglio. Il messaggio dell’Annunciata di Palermo è del tutto interiore.

 

Quando fu realizzato il quadro di Antonello da Messina

 

Realizzata intorno al 1476 dopo il suo ritorno in Sicilia, l’Annunciata si trova a Palermo, alla Galleria Regionale della Sicilia di Palazzo Abatellis. Si presenta in un allestimento che determina nel visitatore un’esigenza di silenzio, raccoglimento e contemplazione. Di questo capolavoro, per secoli, non si ebbero notizie. La prima citazione è del 1886, quando il prelato e storico dell’arte Gioacchino Di Marzo scrisse di aver visto a Venezia un’opera uguale all’Annunciata, nella collezione di un certo monsignor Vincenzo Di Giovanni. Quell’opera, a sua volta acquistata dalla nobile famiglia palermitana dei Colluzio, era allora attribuita ad Albrecht Dürer. Il dibattito su quale fosse l’esemplare originale, andò avanti irrisolto fino al 1907. Nel 1906 l’Annunciata entrò a far parte della raccolta di quello che era all’epoca il Museo Nazionale di Palermo, oggi diventato Galleria Regionale, e venne esposta per la prima volta nelle sale del Palazzo. L’originalità dell’opera di Palazzo Abatellis e l’attribuzione ad Antonello da Messina vennero confermate da Enrico Brunelli nel 1907. Venne così stabilita la precedenza dell’Annunciata di Palermo rispetto al dipinto di Venezia: “Il rosso è un rosso vermiglio, simile al sangue arterioso, l’azzurro volge al verde marino e ha un’intonazione particolarissima che si riscontra talora nel mare siciliano, quando l’azzurro intenso di un cielo sereno del meriggio è rispecchiato e pare si fonda quasi nelle acque tranquille e profonde”.

 

Scultura

 

Nella seconda metà del XV sec., la scultura viene a sua volta completamente rinnovata grazie a vari artisti italiani, tra cui Francesco Laurana e Domenico Gaggini o Gagini. Francesco Laurana, scultore ed incisore italiano, trascorre cinque anni in Sicilia (dal 1466 al 1471) dove realizza alcune opere, come la cappella Mastrantonio in San Francesco d’Assisi a Palermo e il busto di Eleonora D’Aragona a Palazzo Abatellis (Palermo). Si possono ammirare le sue Madonne con Bambino, dipinte in quel periodo, nella chiesa del Crocifisso a Noto, in quella dell’Immacolata a Palazzolo Acreide e al museo di Messina. Domenico Gagini, nato da una famiglia di architetti e scultori italiani originari della regione dei laghi, si trasferisce definitivamente in Sicilia dove esercita la sua arte insieme al figlio Antonello, nato a Palermo nel 1478. È in questa città che aprono una florida bottega. Le loro opere, che riflettono la predilezione dell’epoca per forme eleganti e ricercate, vengono realizzate in marmo di Carrara e non più in tufo calcareo. La tecnica di Domenico Gagini viene poi ripresa nel campo della scultura dai suoi discendenti, di cui dieci godono di fama fino alla metà del XVII sec., sia in campo scultoreo (soprattutto opere in stucco) che in oreficeria. Numerose chiese siciliane conservano tuttora alcune splendide statue di madonne e di sante realizzate dai Gagini, benchè l’abbondante produzione abbia talvolta portato alla realizzazione di opere ripetitive e di scarso valore. Grande centro di produzione artistica, la bottega dei Gagini, oltre ai figli di Antonello, formò nuovi scultori e artisti, tra cui Giuliano Mancino, Antonio e Bartolomeo Berrettaro, Vincenzo Carrara, Fedele Da Corona.

 

Francesco Laurana

 

Anche l’opera di Francesco Laurana copre un ventaglio di luoghi e territori molto vasto, da Napoli alla Sicilia, ma anche in Francia e di più. Il suo genio di scultore e architetto ebbe parte nella diffusione dell’estetica rinascimentale. Nacque a Vrana (chiamata anche Aurana o Laurana) da cui prese il nome, ma veniva appellato similmente Francesco “da Zara” o “Atzara”, essendo il paese di nascita vicino alla città di Zara. La Dalmazia faceva allora parte dei domini della Repubblica di Venezia, ma possedeva una propria cultura autonoma, data la romanità passata. Tuttavia, sono scarse le informazioni relative al primo periodo formativo, e, quindi, delle possibili influenze ricevute. Si suppone che in età giovanile abbia fatto parte del cantiere del Tempio Malatestiano, lavorando, come scultore itinerante, insieme ad Agostino di Duccio. Le prime informazioni lo colgono, nel 1453, a Napoli, nel gruppo realizzativo dell’arco trionfale del Castel Nuovo. Il fatto che vi facesse parte, data l’importanza del cantiere e dati i partecipanti (tra gli altri, Pere Johan, Paolo Romano e Pietro di Martino da Milano) lo caratterizza come scultore ormai formato ed abbastanza conosciuto. Probabilmente la sua fama fu acquisita già in Dalmazia. Infatti la regione rappresentava l’importante sbocco al mare del Regno ungherese. Ora, essendo il progetto napoletano voluto da Alfonso V d’Aragona, che era imparentato con gli angioini del Regno d’Ungheria, è facile pensare che furono richiesti importanti degli artisti della zona. Tra le opere dell’Arco di Trionfo, viene a lui attribuito il rilievo dell’Ingresso trionfale di Alfonso a Napoli, posizionato sul fregio del primo attico. Il Laurana lavorò a Napoli dal 1453 al 1458. Morto Alfonso V, venne chiamato alla corte angioina francese di re Renato d’Angiò. In Francia soggiornò e lavorò tra il 1461 e il 1466. Le fonti sull’arrivo del Laurana in Sicilia sono molto controverse. Sembra che, su invito del conte Carlo De Luna d’Aragona, lo scultore dalla Francia si trasferì a Sciacca (in provincia di Agrigento). Qui aprì una bottega artistica, in società con lo scultore lombardo Pietro de Bonitate. Tra difficoltà e insulti, la residenza si dimostrò impossibile, costringendolo a cambiare località. Alcune notizie lo vogliono a Sciacca una seconda volta, dopo un breve periodo di nuovo in Francia. L’ipotesi non trova, però, piena conferma. Nel 1468, comunque, aprì una nuova bottega, ma stavolta a Palermo, sempre unitamente all’amico Pietro de Bonitate. Qui, ricevette l’incarico di occuparsi della cappella Mastrantonio nella chiesa di San Francesco d’Assisi. Il suo arco d’ingresso è considerato da molti uno dei primi esempi di applicazione dello stile rinascimentale in Sicilia, sia per quanto riguarda la scultura che per l’architettura. A Palermo lavora molto, tanto da avere bisogno di aiuti. La vita di bottega lo porta a realizzare più commesse di “Madonne col Bambino”. Nel capoluogo ve ne sono due: una nella Cattedrale di Palermo, e l’altra nella chiesa di Santa Maria della Neve, sempre in città. Altre trasposizioni sono collocate nella chiesa del Crocifisso a Noto e nella chiesa dell’Immacolata di Palazzolo Acreide. Una quinta versione è conservata nel Museo Regionale di Messina. Tuttavia, l’importanza del Laurana è legata, soprattutto, agli innumerevoli busti femminili, in cui esso si specializzò. Questi sono così caratterizzati dalla purezza e levigatezza da essere paragonati alle composizioni di Piero della Francesca ed Antonello da Messina. La sintesi del Laurana nei suoi busti ha una suggestione ed una bellezza di modernità e di astrazione. Lo si nota nel ritratto femminile di Eleonora d’Aragona (1468), esposto nel Palazzo Abatellis di Palermo. La sua è una vera e propria idealizzazione delle forme. Sempre nello stesso museo sono collocate la piccola Testa di gentildonna e il Busto di giovanetto. I suoi ritratti femminili hanno raggiunto il Louvre, il Museo del Bargello di Firenze, la Frick Collection di New York, il Staatliche Museen di Berlino e il Kunsthistorisches Museum di Vienna. Dopo un breve periodo in cui Francesco Laurana soggiornò di nuovo a Napoli, dal 1471 al 1477 (sua è la Vergine della Cappella di Santa Barbara), tornò in Francia, dove morì, in Provenza, nel 1502. Anche nell’ultima parte della sua vita realizzò parecchie opere molto significative. Come esempio: l’altare della cappella di San Lazzaro nel Duomo Vecchio di Marsiglia e il Retablo della salita al Calvario per la chiesa di Saint-Didier di Avignone.

 

Busto di Eleonora D’Aragona

Il busto di Eleonora D’Aragona, scultura marmorea, 50 cm., realizzata da Francesco Laurana, intorno al 1468, Galleria Regionale della Sicilia di Palazzo Abatellis, Palermo.

 

Il busto di Eleonora D’Aragona, scultura marmorea, 50 cm., realizzata da Francesco Laurana, intorno al 1468, Galleria Regionale della Sicilia di Palazzo Abatellis, Palermo.

 

Il busto di Eleonora D’Aragona, scultura marmorea, 50 cm., realizzata da Francesco Laurana, intorno al 1468, Galleria Regionale della Sicilia di Palazzo Abatellis, Palermo.

 

Il busto di Eleonora D’Aragona, scultura marmorea, 50 cm., realizzata da Francesco Laurana, intorno al 1468, Galleria Regionale della Sicilia di Palazzo Abatellis, Palermo.

 

Il busto è tradizionalmente riferito a Eleonora d’Aragona, defunta nel 1406, moglie di Guglielmo II Peralta, signore di Sciacca, Conte di Caltabellotta e Vicario del Regno aragonese. La nobildonna fu sepolta nella chiesa dell’abazia benedettina olivetana di S. Maria del Bosco di Calatamauro, nei pressi di Giuliana, di cui fu benefattrice. Dal suo monumento funebre, rimaneggiato in età barocca, proviene il busto, postumo di ben oltre cinquant’anni dalla morte di Eleonora, probabilmente commissionato dal suo illustre discendente Carlo Luna, nuovo signore di Sciacca e Caltabellotta, e primo committente siciliano del Laurana che poté aver già conosciuto alla corte aragonese di Napoli. Il conte Luna fu tra i nobili siciliani più vicini al sovrano Alfonso il Magnanimo, grande committente di Francesco Laurana per l’arco di Castelnuovo. La scultura fu accolta come opera del Laurana e trasferita ai primi del Novecento nelle pubbliche collezioni da Antonino Salinas, direttore dell’allora Museo Nazionale. Essa si pone all’apice della serie di busti muliebri realizzati dal Laurana, fra i quali alcuni altri per esponenti femminili della Casa d’Aragona. I busti ritratto venivano commissionati anche in occasione di nozze o fidanzamento per celebrare, attraverso il personaggio femminile, l’unione di importanti casati. Il busto di Palermo è databile alla fine degli anni sessanta del Quattrocento, all’epoca degli impegni e della presenza del Laurana fra Sciacca e Partanna. A distanza di più generazioni dall’illustre personaggio, l’intento politico del committente poté essere quello di sancire, attraverso la memoria, il legame dinastico con la Casa regnante d’Aragona, alla cui affermazione in terra di Sicilia, la nobildonna, definita dalle fonti “inclita et generosa Alyonora” aveva fortemente contribuito, esercitando tutto il suo carisma nel decisivo ruolo di mediazione rispetto alle tendenze ribellistiche del baronato locale. Si tratterebbe in questo caso di un ritratto postumo della gentildonna, idealizzata in un modello assoluto di perfezione formale così come si era andato definendo nel corso del Quattrocento nel sud della Francia e in Italia con il contributo fondamentale Piero della Francesca. Quest’ultimo si pone come riscontro in pittura per l’elaborazione di un modello di bellezza muliebre astratta, che presenta i valori umanistici di equilibrio spirituale e le virtù etiche del personaggio ritratto, mediante la definizione di forme pure, perfettamente geometriche e chiuse. I valori formali classicamente geometrici dell’opera sono esaltati dall’esposizione museale progettata da Carlo Scarpa a Palazzo Abatellis dove il busto di Eleonora è isolato al centro di uno spazio e posto su di un piedistallo a stelo e sullo sfondo di pannellature quadrangolari di colori freddi verde e blu che legano il classico rinascimentale al classico contemporaneo. Il finissimo ritratto femminile è raffigurato come un busto comprendente le spalle, tagliato all’altezza del petto. L’effigie è caratterizzata da una bellezza levigata e rarefatta, dove la purezza delle forme e la sintesi geometrica sembrano richiamarsi a modelli di Piero della Francesca e di Antonello da Messina. L’idealizzazione in questo caso trasfigura le fattezze fisiognomiche, verso forme sofisticatamente pure. I capelli sono raccolti in velo che nasconde le orecchie e dà alla forma della testa un aspetto più levigato. Al Louvre esiste un busto di principessa molto simile.

 

Arco marmoreo della Cappella Mastrantonio

Arco marmoreo della Cappella Mastrantonio, realizzata nel 1469, da Francesco Laurana con Pietro de Bonitate, cappella Mastrantonio in S. Francesco d’Assisi a Palermo

 

Degna di nota è la Cappella Mastrantonio, realizzata tra il 1468 e il 1469 da Francesco Laurana e Pietro de Bonitate, tra le prime testimonianze del Rinascimento siciliano. Sullo splendido arco in marmo che incornicia la cappella sono raffigurati, a sinistra Sant’Agostino e Sant’Ambrogio ed a destra, San Girolamo e San Gregorio a sinistra. Vi sono inoltre raffigurati i Quattro Evangelisti, i profeti Geremia e Isaia, e due figure, all’interno dei medaglioni dei pennacchi, che rimandano alla Annunciazione. La pala d’altare del XVII secolo in cui è raffigurata la Visione di San Francesco è opera di Pietro Novelli.

 

Domenico Gaggini o Gagini

 

Domenico Gaggini o Gagini nasce a Bissone nel canton Ticino, in Svizzera. È uno scultore di grandi capacità, che ha collocato il suo nome tra quelli degli scultori rinascimentali. Trasferitosi a Palermo, legherà all’isola la sua vita. E non solo. Diede origine alla bottega artistica siciliana più importante del periodo, dove lavoreranno i figli ed i nipoti, dando origine ad una “dinastia” artistica tra le più conosciute. Vi lavoreranno i figli Giovanni e Antonello Gagini, ed i nipoti Fazio, Giacomo e Vincenzo Gagini. Numerosi furono anche gli artisti siciliani che vi si formarono. Educatosi in Lombardia, si caratterizzò nella sua arte di suggestioni gotico-lombarde. Il Vasari, ma anche il Filarete, riportano la sua vicinanza, come allievo, del Brunelleschi. Dal 1444 al 1446 soggiornò a Firenze, confrontandosi con realizzazioni di Donatello, ma soprattutto di Lorenzo Ghiberti. Probabilmente lavorò nei coevi cantieri di Santo Spirito e di San Lorenzo a Firenze. Nel 1448, gli fu commissionata la realizzazione della prima cappella del Battista della cattedrale di San Lorenzo a Genova. Verso il 1457 si trasferisce a Napoli, dove entra a far parte del gruppo, formato da Francesco Laurana (altro scultore), per la realizzazione delle sculture in Castel Nuovo dell’Arco di Alfonso V d’Aragona (1457-1458), ritenuto opera d’apertura della fase rinascimentale nel mezzogiorno italiano. In questo progetto gli sono attribuite: la statua della Temperanza, la porta d’ingresso alla sala dei Baroni e la Madonna della Cappella di Santa Barbara. Nel 1459, ormai molto conosciuto per l’Arco trionfale del Castel Nuovo, Domenico Gagini si sposta a Palermo, dove lavorerà per il resto della vita, con i figli ed i nipoti. La sua opera aiuterà la diffusione del nuovo linguaggio rinascimentale (classicista) nell’isola. Tra le molte opere da lui realizzate in Sicilia, possiamo ricordare due statue della Madonna col Bambino, una a Castelvetrano nella chiesa dell’ex convento di San Domenico, e l’altra, unitamente al sarcofago di San Giuliano, per la chiesa madre di Salemi (del 1480). Prima di queste, il Gagini aveva realizzato già un’altra “Madonna col Bambino” per l’ospedale della SS. Annunziata di Napoli. Diverse sculture compongono il gruppo del Genio di Palazzo pretorio. Palermo, contenute nello stesso. Altre composizioni si possono ammirare in diversi musei, come la Natività presso la National Gallery of Art a Washington, mentre presso il museo di Palazzo Abatellis a Palermo, sono conservati dei capitelli appartenenti alla chiesa della Santissima Annunziata di Napoli, purtroppo non più esistente.

 

Busto di Pietro Speciale

Domenico Gagini (Bissone 1420 ca. – Palermo 1492) Museo di Palazzo Ajutamicristo.

 

L’opera costituisce una delle testimonianze più significative della svolta artistica in senso rinascimentale umanistico a Palermo. Si tratta infatti di un busto ritratto, pregnante nel dare risalto al volto e dunque centralità alla figura umana. Il personaggio ritratto fu un protagonista del suo tempo, sia sul piano politico che culturale. Vissuto fra il 1405 e il 1474, Pietro Speciale fu l’esponente del ceto burocratico amministrativo nella Palermo del secondo Quattrocento, presidente del regno e poi pretore. Ascese anche al ceto nobiliare come signore di Alcamo e Calatafimi. Sul piano culturale fu “uomo di criterio e di dottrina” e la sua biblioteca personale andò famosa per i testi e manoscritti preziosi. Fu egli stesso autore o comunque ispiratore di scritti di storia delle istituzioni siciliane. Mecenate e committente di opere e imprese artistiche, di fatto, agevolò il processo del passaggio dal gotico al rinascimento di tipo centro italiano. Gli interventi sulle mura e le porte di città, il rifacimento in forme moderne del palazzo pretorio, sono alcuni degli interventi promossi da Pietro Speciale come pubblico amministratore. Il monumento 39 sepolcrale da lui commissionato per la cappella di famiglia presso il presbiterio della chiesa di San Francesco d’Assisi costituisce la prima importante occasione per Domenico Gagini e, attraverso la sua opera, per l’approdo a Palermo della scultura rinascimentale di cultura toscana. Nel 1463 Pietro diede incarico infatti a Domenico Gagini, da poco giunto a Palermo, di eseguire il monumento sepolcrale per sé e per il figlio Antonio, prematuramente scomparso in età giovanile. Il documento di commissione dell’opera descrive un insieme di concezione umanistica, alla maniera delle tombe toscane del Rossellino e di Desiderio da Settignano. La preminenza era riservata all’effige del defunto che ricorreva sia sul coperchio del sarcofago e dunque nella posizione giacente che esplicitava l’accettazione della morte, sia nel busto ritratto posto a parete con relativa lapide che sottolineava le virtù spirituali e civili dell’uomo e dunque la trasmissione dei valori al di là della morte. Più volte smontato nel corso del tempo, ma già a partire dal secolo XVI, del monumento Speciale sopravvivono alcuni elementi nella chiesa di San Francesco, mentre si pensa che il busto del committente Pietro, non ancora defunto al tempo della realizzazione dell’opera, sia da identificare in quello oggi al museo e per tanti anni posto sullo scalone del palazzo Speciale, con la lapide celebrativa datata 1468. A differenza dei busti ritratto del Laurana, estremamente idealizzati e fuori dal tempo, il ritratto Speciale esprime tutta la personalità dell’illustre personaggio, la sua forza razionale di dominio della realtà. I tratti somatici del volto corrispondono a fattezze ben precise, l’abito e il copricapo sono quelli dei signori del tempo. Se per il Laurana vale il corrispondente pittorico di Piero della Francesca, per Domenico Gagini ritrattista non si possono non richiamare i pregnanti ritratti di Antonello da Messina, dedicati a uomini oggi a noi sconosciuti, ma che al loro tempo e nel loro ambiente politico, sociale e professionale esercitarono quella consapevole centralità della conoscenza, posta alla base dell’Umanesimo, che gli artisti chiamati a ritrarli seppero cogliere e trasformare in immagine. L’originaria sistemazione museale dell’opera a Palazzo Abatellis, nella sala adiacente al capolavoro di Francesco Laurana, nel contesto progettato negli anni Cinquanta del Novecento da Carlo Scarpa, esaltava tale confronto fra le due concezioni preminenti dell’uomo e dell’arte del Rinascimento italiano.

 

Sarcofago di Antonio Speciale,1468, Chiesa di San Francesco d’Assisi di Palermo.

 

Domenico Gaggini, Madonna del latte, Galleria Regionale della Sicilia, Palermo

 

Antonello Gagini

 

Antonello, figlio di Domenico Gaggini o Gagini, nacque e morì a Palermo. Operò, soprattutto, a Genova, in Sicilia e in Calabria. Antonello ereditò l’avviata bottega dal padre, ma gli diede un’organizzazione molto più imprenditoriale. Non solo assorbì la concorrenza (assunse gli scultori lombardi Andrea Mancino e i Berrettaro), e formò i suoi figli al mestiere, ma ingrandì l’azienda aprendo una seconda bottega nella stessa Palermo. La prima, situata presso il Duomo, era il vero locale di lavorazione, l’altra, al porto, esponeva pezzi finiti, pronti per la vendita e per l’esportazione in tutta la Sicilia e Calabria, ed anche più. La sua attività si ampliò anche al campo dell’architettura. Già il padre, che era stato allievo di Brunelleschi (lo conferma il Filarete), lo aveva avviato alla nuova professione, ma egli continuò “gli studi”, viaggiando molto, soprattutto in Toscana, e leggendo molto (il trattato di Vitruvio). Ebbe modo, così, di apprezzare le opere di Francesco di Giorgio Martini. Antonello Gagini affrontò il monumentale lavoro della Tribuna di Santa Cita. Sempre a Palermo, sono di sua composizione e costruzione la Chiesa di Santa Maria di Porto Salvo e la Cappella dei Genovesi (dedicata a San Giorgio) annessa alla chiesa di S. Francesco d’Assisi dove all’esterno rimangono una preziosa porta e delle finestre marmoree. Presso il museo di Palazzo Abatellis a Palermo, si possono trovare alcune delle sue sculture. L’elenco delle sue opere in Sicilia e Calabria è davvero considerevole. Tra città e chiese di paese, Antonello Gagini, in una pioggia di capolavori, ha impreziosito e valorizzato l’intero meridione. A Nicosia, in provincia di Enna, ad esempio, nella Basilica di Santa Maria Maggiore, realizzò la Tribuna, raffigurante scene di Santi e Vita della Vergine Maria (in marmo e oro zecchino) ed il trittico marmoreo del Redentore (del 1510). Solo l’opera di Nicola è un lavoro molto vasto e di per sé unico. Di lui vi sono opere ovunque. Solo per citare alcuni dei paesi siciliani che ospitano una sua creazione: a Sambuca di Sicilia (AG), a Sciacca (AG), a Buccheri (SR), a Capizzi (Me), a Ciminna (PA), a Burgio (Ag), a Santa Lucia del Mela (ME), a Roccella Valdemone (ME), a Pettineo (ME), a San Fratello (ME), a Modica (RG), a Vizzini (CT), a Trecastagni (CT), a Linguaglossa (CT), a Caltagirone (CT) e a Piazza Armerina (EN).

 

Navata laterale dx, trittico marmoreo di età tardo gotica. Trittico marmoreo raffigurante lo Sposalizio mistico di Santa Caterina fra i Santi Nicola e Michele. Scuola Gaggini o Gagini.

 

Antonello Gaggini o Gagini, Madonna della Neve, Galleria Regionale della Sicilia, Palermo.

 

San Michele Arcangelo

Antonello Gaggini o Gagini, San Michele Arcangelo, marmo, Galleria Regionale della Sicilia di Palazzo Abatellis, Palermo.

 

L’opera racchiude una parte significativa della storia di Palermo, per secoli posta entro la nicchia che sormontava il portale della Collegio Massimo dei Gesuiti lungo il Cassaro, odierna sede della Biblioteca Regionale. Le fonti ne tramandano l’attribuzione “al Gagino” e l’originaria provenienza da un caseggiato della nobile famiglia Ventimiglia che sorgeva ad angolo fra il Cassaro e l’antica via del Gambino, oggi via dell’Università. Dunque l’opera, di dimensioni contenute, ebbe fin dall’origine una destinazione esterna, non da altare. Nel passaggio ai Gesuiti fu modificato lo scudo aggiungendovi il monogramma dell’Ordine. L’attribuzione “al Gagini”, inteso come Antonello, trova conferma nelle ultime ricerche documentali che attestano l’esistenza dell’opera già nel 1517, quando venne citata nel testamento del Ventimiglia, proprietario della “doma nova…. Sita in cantonera et contrata de Gambino, in qua est posita imago Sancti Michaelis gloriosi”. Evidentemente l’area veniva identificata dalla presenza e visibilità che la statua aveva sul Cassaro. La notazione d’archivio è fondamentale per attribuire con certezza il San Michele ad Antonello Gagini, rispetto ad altre ipotesi riguardanti i suoi eredi e continuatori. Infatti alla data del 1517, quando la statua risulta già esistente, morto il padre Domenico e non ancora in età i figli, l’unico esponente dedito alla scultura era lo stesso Antonello, il quale già nel 1514 risulta avere preso bottega nella “ruga di Misser Gambino”. Negli anni seguenti Antonello estese le sue pertinenze lungo la medesima via e ciò in relazione al grande cantiere della Tribuna della Cattedrale che lo avrebbe impegnato fino alla morte nel 1536, continuato dai figli che pure mantennero le proprietà in via del Gambino. Il “San Michele Glorioso”, così come lo cita il documento, presenta caratteri formali coerenti con la produzione di Antonello del secondo decennio del Cinquecento, con un plasticismo più attenuato e forme di memoria donatelliana e da Desiderio da Settignano.

 

Antonello Gaggini o Gagini, San Michele Arcangelo, marmo, Galleria Regionale della Sicilia di Palazzo Abatellis, Palermo.

 

Questo splendido Ritratto di giovanetto è un’opera del raffinato scultore siciliano Antonello Gaggini o Gagini. È stato a lungo ritenuto una raffigurazione di san Vito, in quanto la statua, oggi conservata presso la Galleria Regionale di Palazzo Abatellis a Palermo, proveniva proprio da quella chiesa: non ci sono però attributi iconografici che possano ricondurre al santo, anche se c’è ancora chi considera valida l’ipotesi che il giovane possa essere appunto san Vito. È un’opera molto elegante, di gusto aristocratico, che riflette la raffinatezza dell’arte di Francesco Laurana, lo scultore dalmata, molto attivo in Sicilia, a cui lo stesso Gagini poté guardare. I teneri lineamenti del volto, leggermente effeminati, uniti alla precisione realizzativa, creano un’opera molto delicata, che peraltro conserva ancora gran parte delle dorature. L’elegante gusto di Antonello Gaggini o Gagini influenzerà notevolmente gli scultori della scuola siciliana a lui contemporanea. L’opera, considerate anche, come detto, le evidenti affinità con l’arte di Francesco Laurana (per qualche tempo gli storici dell’arte assegnarono il ritratto alla sua bottega), è databile agli anni Novanta del Quattrocento ed è quindi considerabile come un’opera giovanile di Antonello Gaggini o Gagini.

 

L’architettura

 

Del periodo gotico-rinascimentale rimangono a Palermo testimonianze ravvisabili in edifici come Palazzo Sclàfani, nel cui cortile fu rinvenuto il magnifico affresco Il Trionfo della Morte, o il Palazzo Arcivescovile. La chiesa di Santa Maria della Catena rappresenta uno splendido esempio di armoniosa fusione degli stili gotico-catalano e rinascimentale. Altre chiese rappresentative del periodo sono Sant’Agostino, con il suo bel chiostro, Santa Maria La Nova, Santa Maria di Gesù con il convento. Nell’architettura civile si ricordano come interessanti esempi del gotico-catalano Palazzo Abatellis, oggi sede della Galleria Regionale della Sicilia, e Palazzo Ajutamicristo. In stile tardo-gotico invece è la chiesa di Santa Maria della Gancia. L’architetto più importante del Quattrocento isolano fu Matteo Carnilivari. Il suo linguaggio espressivo, però, fu caratterizzato dallo stile classico rinascimentale, frammisto a riferimenti gotici e aragonesi. Più che spronare al cambiamento, il suo stile (molto ammirato), ritardò la diffusione delle nuove tendenze.

 

Matteo Carnilivari

 

È ritenuto uno dei maggiori maestri del Quattrocento siciliano per aver aperto le forme dell’architettura tradizionale (gotico locale: motivi normanno-svevi influenzati dall’arte catalana) al nuovo linguaggio rinascimentale. Le sue opere fondamentali sono a Palermo: il Palazzo Abatellis (1487 – 1493) dal rude carattere proprio dell’architettura medievale palermitana con una torre laterale, tipico esempio del Quattrocento locale; il Palazzo Aiutamicristo (1490 – 1495), uno dei più importanti dell’architettura siciliana dell’epoca, il cui cortile evoca il patio spagnolo, purtroppo rovinato e manomesso nel corso dei secoli; la chiesa di Santa Maria della Catena (scorcio del XV secolo), attribuita a Carnilivari per le analogie stilistiche con le altre sue fabbriche, ma più di queste ispirata ai modelli locali e caratterizzata da coperture con volte a crociera e dalla serie degli archi uguale sia all’interno che all’esterno.

 

Chiesa di San Francesco d’Assisi Palermo

 

È uno dei monumenti più belli di Palermo, e per alcuni il più importante sia per valore artistico che storico. La Chiesa di S. Francesco d’Assisi fu costruita tra il 1254 e il 1277, anche se lavori di trasformazione e di abbellimento si protrassero a lungo nei secoli. I ritardi, specie nella prima fase della costruzione, furono dovuti all’atteggiamento ostile nei confronti dei Francescani da parte di Federico II, che li persegui quali eretici. La facciata principale dell’edificio rivolta ad occidente, di impianto gotico, presenta tre portali del XIV secolo. Le navate laterali conservano ancora le bifore gotiche originali. Il grande portale centrale è sormontato da un elegante rosone ricostruito nel XX secolo. Nel timpano del portale sovrastante l’arco chiaramontano è presente una trifora cieca, le superfici interne delle aperture ospitano gli affreschi della “Vergine in trono” collocata tra le figure di “San Francesco” e “Santa Chiara”. Il portale, espressione del gotico, fiorito presenta decorazioni a zig zag su tre ordini di ghiere o strombature originate da altrettanti ordini di colonne in progressione concava. Sono presenti i simboli degli Evangelisti, ai lati due formelle simmetriche con altorilievi raffiguranti l’Annunciazione, un Ecce Homo è collocato sul portale sinistro e lo stemma dei Francescani. Le formelle duecentesche con l’Annunciazione e i Simboli degli Evangelisti sono tipici esempi di scultura chiaramontana. Lo stemma degli Abatellis, la famiglia che insieme ai Chiaramonte contribuì economicamente alla realizzazione dell’edificio, risale al 1302. L’interno di severo aspetto, la zona presbiteriale triabsidata presenta uno spazioso cappellone rettangolare. L’interno dell’edificio è composto dal vano basilicale, suddiviso in tre navate da archi acuti su pilastri, dall’abside maggiore quadrangolare più ampio trasversalmente, si amplia nelle cappelle laterali, aperte tra il Tre e il Quattrocento, e da sedici cappelle. Le navate laterali sono coperte ancora con le volte a crociera originarie, mentre la navata centrale è coperta dal soffitto a capriate realizzato dopo i restauri del XX secolo. Le navate laterali conservano ancora le bifore gotiche originali. Tra le cappelle della Chiesa, scrigni di notevoli opere d’arte, menzioniamo la “Cappella Mastrantonio” (la quarta a sinistra), introdotta da un raffinato arco marmoreo eseguito intorno al 1468 da Pietro De Bonitate e da Francesco Laurana. Iniziando la descrizione dei rilievi dal basso, alla base delle lesene sono raffigurati Putti con cornucopia, cui seguono i Padri della Chiesa e i Quattro Evangelisti, raffigurati con i rispettivi simboli iconografici. La decorazione delle due lesene si completa con gli stemmi dai Mastrantonio e con due figure di Profeti (Geremia e Isaia). Sul fronte dell’arco i due medaglioni sono l’Angelo Annunziante e l’Annunziata; nella chiave l’Eterno. Nell’intradosso dell’arco le formelle decorative presentano elementi vegetali a teste antropomorfe. Ai due scultori si devono anche la lastra tombale e la Madonna col Bambino, opere collocate nella cappella. Ancora a Francesco Laurana si deve lo splendido Sarcofago di Antonello Speciale, posto accanto alla porta dalla quale si accede alla sacrestia. La cappella a sinistra del presbiterio è intitolata a S. Francesco d’Assisi e fu realizzata nel 1690 con uno sfarzoso addobbo a marmi mischi. Nel presbiterio è il coro ligneo in noce realizzato da Giovanni e Paolo Gili tra il 1515 e il 1524. Nella tribuna della chiesa si trova il monumento di Atanasio Speciale, realizzato nel 1473 da Domenico Gagini e nella Cappella Alliata del Sacro Cuore una scultura della Madonna del Soccorso, opera dello stesso artista. Nella seconda cappella a destra, la Cappella dei Genovesi, introdotta dall’arco con storie di S. Ranieri (Gabriele di Battista, 1503-1505, con la collaborazione di Domenico Pellegrino e Iacopo De Benedetto) è l’altare con S. Giorgio che uccide il drago, notevole prova di Antonello Gagini (1526). La Cappella dell’Immacolata è decorata con marmi policromi seicenteschi. Le volte sono decorate affreschi e stucchi da Pietro Novelli (prima metà del XVII secolo). La chiesa è inoltre adornata da un ciclo di dieci statue raffiguranti le Virtù francescane realizzate nel 1723 e considerate tra le opere migliori di Giacomo Serpotta: la “Carità”, la “Teologia”, la “Fortezza”, la “Verità”, la “Fede”, la “Mansuetudine”, la “Modestia”, l'”Umiltà”, nell’andito che conduce alla sagrestia le statue della “Castità” e “Vittoria”. Sono altresì presenti gli stemmi di Carlo V, del viceré Pignatelli e delle principali famiglie dell’aristocrazia locale. L’abside fu rinnovata alla fine del XVI secolo da Giuseppe Giacalone. La cappella dell’Immacolata, a destra del presbiterio, ha un rivestimento a mischio. Le otto statue di Santi, realizzate tra il 1716 e il 1727 da Giovan Battista Ragusa, sono impostate entro nicchie disegnate da Paolo Amato. Sull’altare è un quadro a mosaico, raffigurante l’Immacolata, eseguito su un cartone di Vito D’Anna. La decorazione della cappella fu portata a termine solo nel 1746 a opera dell’architetto Giovanni Maggiordomo. Intorno al 1873 Salvatore Valenti esegui l’edicola con le colonne tortili e le decorazioni della stessa con putti e tralci fitoformi. Il paliotto a marmi mischi con l’Immacolata tra i SS. Benedetto e Scolastica (1691 ca.) proviene dalla chiesa dell’Immacolata a Porta Carini. La sesta cappella a destra, intitolata all’Ecce Homo, rivestita da sofisticate fodere di marmo policromo, ha tre splendidi bassorilievi di Ignazio Marabitti del 1780. La cappella successiva, intitolata a S. Rosalia, custodisce una tela firmata e datata di Gaetano Mangani (1797), raffigurante l’incoronazione di S. Rosalia. Nella cappella di S. Giovanni evangelista l’edicola con angeli reggicortina si deve a Pietro De Bonitate, autore anche delle quattro statuine delle Virtù. I due monumenti funebri a Carlo e Nicolò Napoli sono opera di Ignazio Marabitti. Il convento si estende sul lato sinistro della Chiesa e si articola intorno a due chiostri, l’uno del XVI secolo, a tre lati, con archi ogivali su pilastri; l’altro, del XVII secolo, rimasto incompleto, è a tre lati con archi a tutto centro sorretti da colonne in marmo. Nel 1848 l’architetto Rosario Torregrossa progettò la Sala del Parlamento, in cui Ruggero Settimo tenne il discorso d’apertura del parlamento rivoluzionario. Uno scalone in marmo rosso settecentesco conduce ai piani superiori del convento dove oggi hanno sede la ricchissima Biblioteca francescana e l’Officina di Studi Medievali.

Il grande portale centrale è sormontato da un elegante rosone ricostruito nel XX secolo.

 

La facciata principale.

 

Il grande portale centrale.

 

Navata centrale.

 

Navata centrale con scorcio della navata laterale sinistra.

 

Altare maggiore.

 

Crocifisso.

 

statue raffiguranti le Virtù francescane realizzate nel 1723 da Giacomo Serpotta.

 

Soffitto ligneo.

 

Cappella dell’Immacolata.

 

Cappella dell’Immacolata. Particolare.

 

“Cappella di San Giorgio” e “Arco di San Ranieri di Pisa”.

 

Sarcofago di Elisabetta Amodei “Cappella del Sacro Cuore”.

 

Sepolcro Alliata “Cappella della Madonna della Neve”.

 

“Cappella di San Francesco d’Assisi”.

 

Coperchio Sarcofago di Antonello Speciale Cappella della Madonna del Rosario.

 

Statua della Vergine con Bambino.

 

Altare Vergine con Bambino

 

“Madonna della Neve” e Sepolcro Alliata “Cappella della Madonna della Neve”.

 

Statua della Madonna col Bambino e San Giovannino “Cappella della Madonna della Neve”.

 

“Portale Mastrantonio”.

 

Chiesa di Sant’Agostino a Palermo

 

Nota localmente come «Chiesa di Santa Rita» ha una storia molto antica. La fondazione della chiesa risale ad epoca angioina cioè alla seconda metà del Duecento. Edificata intorno al 1275 là dove esisteva già una chiesetta medievale dedicata a San Dionigi, della famiglia Maida. Fu voluta dalle famiglie Sclafani e Chiaramonte, durante la dominazione angioina, visibili infatti sul prospetto gli stemmi di queste due nobili casate. La chiesa ha una semplice impianto costituito da un’unica navata, un campanile e un chiostro ma per le caratteristiche ammirevoli è unica in tutta Palermo. Eretta nei primi anni del XIV secolo, il prospetto trecentesco è caratterizzato da una superficie spoglia sulla nuda cortina muraria s’appoggiano il portale e il rosone, composti in unità da un disegno di geometrica purezza. Nella facciata il timpano è a nicchie. Un severo, ma ricco portale gotico, ha scarsa strombatura e sensibile slancio. Si contraddistingue da tre serie degradanti di archi a sesto acuto si adagiano su capitelli riccamente decorati che sovrastano esili colonnine che ingentiliscono la struttura ed incorniciano il portone ligneo d’ingresso risalente al quattrocento. Con motivi tutti diversi ottenuti con intarsi in pietra lavica che formano disegni floreali a due colori. La sua decorazione è condotta in superficie con arabeschi preziosi a motivi astratti o floreali stilizzati bicromi e astratti. L’intarsio tufaceo ed il rilievo scultoreo sono lievi e pittorici. Spettacolare è il rosone: archi convergono su dodici colonnine bianche che si intersecano a formare una straordinaria composizione, riccamente definiti, dai quali filtra la luce all’interno della chiesa, al cui centro è rappresentato da un piccolo tondo dove è scolpito l’Agnus Dei. Il portale laterale, nella via S. Agostino, è opera quattrocentesca forse di Domenico Gagini, Andrea Mancino e Bartolomeo Berrettaro. Un portale ricchissimo di intarsi marmorei in cui sono scolpiti sulla sommità il busto di Dio Padre benedicente e nella lunetta la Madonna del Soccorso con due coppie di angeli ai lati. Sull’architrave tre Santi agostiniani e sugli stipiti figure di altre Sante in un ricchissimo complesso di bassorilievi. La lunetta con il bassorilievo della «Madonna del Soccorso» è d’altra mano e vi fu aggiunta nei primi anni del XVI secolo. In alto, «L’Eterno Padre»; sull’architrave, tre santi agostiniani; sugli stipiti, sei tondi: in quelli alti e medi, quattro sante, in quelli bassi, «Creazione d’Adamo» a s. e <<Creazione di Eva» a d. Negli zoccoli: «Peccato originale» a s. e «Cacciata dal Paradiso» a d.

 

L’interno della chiesa

 

Un vasto incendio del ‘600 distrusse l’interno, si salvarono la facciata con il rosone, il campanile e il portale rinascimentale. L’interno della chiesa ad unica nave, nuda e suggestiva nel suo originario aspetto, subì, già agli inizi del sec. xvi, una prima alterazione con l’apertura del presbiterio. Le pareti scandite da pilastri ed è il risultato delle trasformazioni seicentesche. Nella ricostruzione successiva, nel 1671, si modificò lo stile “aggiornandolo” ai gusti del secolo: si passò così dallo stile gotico allo stile barocco. La copertura fu sostituita da una volta a botte lunettata, mentre le pareti furono ricoperte da semplice e asettico intonaco bianco. Negli anni successivi, gli interni furono arricchiti con decorazioni di Giuseppe Musso e poi da Giacomo Serpotta che con i suoi magnifici stucchi di santi, putti, statue e figure allegoriche, ingentilì tutto il complesso e rese la chiesa quel capolavoro che ancora possiamo ammirare. Cominciamo dall’arco del presbiterio dove troviamo un pregevole stucco che rappresenta l’emblema agostiniano sorretto da due angeli, ai lati in basso due magnifiche statue a sinistra la statua di Santa Monica madre di Sant’Agostino e a destra un Giovane Sant’Agostino. La Santa nella sua rappresentazione sembra vivere un momento di mancamento, si pensa possa rappresentare il momento in cui la donna viene a sapere dell’allontanamento del figlio da casa. Indossa un’ampia veste legata al cinto ed è accasciata con i capo reclinato su di un fianco adagiata su una grande nuvola circondata da angeli. Dalla parte opposta la statua di un giovane Sant’Agostino con veste agostiniana. In piedi, anche lui adagiato su di una grande nuvola sorregge un grande libro aperto che ricordano “Le Confessioni” sua biografia personale, mentre con la mano destra mostra il palmo della mano quasi a volere accompagnare un gesto di ascesa. Circondato anch’egli da angeli con volti innocenti e ingenui tipici dei putti serpottiani. Lungo tutta la navata vi è un susseguirsi di santi, figure allegoriche (la carità, la mansuetudine, la penitenza e la sapienza) e altari disposti con ordine e rigore, per ogni santo viene riportato il nome sulla base, qua e là una piccola serpe con la quale il Serpotta era solito firmare le sue opere, storpiando il suo nome “sirpuzza” quindi serpe. Nella lunetta sopra il portale San Agostino seduto ad un tavolo con un uomo con il turbante, rappresenta la disputa contro un eretico manicheo di nome Fausto.

Nella navata destra troviamo:

  • l’Altare di San Guglielmo, opera del 1567 firmata da Simone de Wobreck che rappresenta un episodio della vita di San Giglielmo.
  • l’altare della Sacra Famiglia con San Giuseppe e Gesù Bambino ad opera di Vito Carrera il Quadro con Sant’Agostino vescovo, mentre nella lunetta è raffigurato Lo Spirito Santo discendere su Sant’Agostino.
  • l’altare con il dipinto di San Nicolò da Tolentino e Pietà, mentre sulla lunetta è rappresentato il Miracolo dei fiori.
  • l’altare della Madonna del Soccorso costituito da due dipinti, mentre nella lunetta è raffigurato Il Padre Eterno.

 

Nella navata sinistra:

  • l’Altare di San Giovanni, nella lunetta è raffigurato San Giovanni e il miracolo del pozzo.
  • l’Altare di San Tommaso di Villanova ad opera dello Zoppo di Gangi e il pulpito ligneo intarsiato.
  • l’Altare di San Sebastiano e la trinità nella lunetta l’episodio delle Donne che lavano San Sebastiano morente. A seguire la porta che conduce al chiostro.
  • Nell’ultima campata si trova un crocifisso ligneo e nella lunetta è raffigurata il Sacrificio di Isacco.
  • Altra opera di grande valore per mano di Ignazio Marabitti è il monumento funebre di Francesco De Medici realizzato nel 1774.

 

Il Convento Agostiniano

 

Si svolge attorno ad un chiostro, della seconda metà del Cinquecento, con agili arcate su eleganti colonne. Sotto la corsia occidentale sono visibili i resti del convento trecentesco. Attraverso un bel portale tra due bifore (pesantemente restaurate) si accede ad un’ampia sala coperta da volta a crociera costolonata con chiave pendula. Al di là è la sacrestia con un affresco settecentesco con «Storie di S. Agostino» nella volta e buoni armadi barocchi. Del resto del convento sussiste lo scalone del sec. XVIII. Nel chiostro sono conservati alcuni capitelli, forse del distrutto chiostro trecentesco, e un sarcofago barocco con coperchio gaginesco con «Annunciazione». Nella via Maestri d’Acqua, di fronte alla chiesa di S. Agostino, è il barocco palazzo trucco, poi La Via di Fucilino. Accanto è la barocca piccola chiesa dei diecimila martiri.

 

Facciata.

 

rosone.

 

Facciata con rosone.

 

Presbiterio.

 

Interno.

 

 

 

 

Organo.

 

 

 

 

Stucchi del Serpotta.

 

Stucchi del Serpotta.

 

Statua in stucco raffigurante.

 

Decorazione in stucco sulla porta centrale della Chiesa di Sant’Agostino a Palermo.

 

Statua in stucco raffigurante Dio Onnipotente.

 

Chiostro di Sant’Agostino

 

Chiostro. Portico meridionale.

 

Convento. Cortile interno.

 

Chiostro. Fontana.

 

Convento. Cortile interno.

 

Chiostro. Sepolcro.

 

Convento. Cortile interno.

 

Palazzo Steri o Chiaramonte

 

Il Palazzo Chiaramonte Steri, conosciuto dai palermitani con il solo nome di Palazzo Steri è ubicato in una zona suggestiva del centro storico di Palermo, ossia Piazza Marina, sito nel quartiere della Kalsa. Il palazzo è anche noto col nome di mandamento dei Tribunali. Palazzo costruito intorno al 1320 da Manfredi I appartenente ai Chiaramonte, conte del feudo di Modica, che rappresentava una delle famiglie più rinomate, al punto da esercitare una grande influenza politica e militare su buona parte della Sicilia Occidentale. Il nome ”Steri” è l’abbreviazione di Hosterium Magnum od Osterio, appellativo d’origine che venne dato al palazzo. L’unione di forme gotiche a elementi di architettura normanna delle quali Palazzo Steri è ricco, vengono chiamate con lo specifico nome di stile ”chiaramontano” ed è tipico dei palazzi signorili di Palermo. Il Palazzo ha un impianto quadrato, L’esterno, benché piuttosto manomesso, conserva ancora sulla fronte e sui fianchi le linee severe della primitiva costruzione a tre piani, massiccio e chiuso con archi ogivali sostenuti da tozze colonne il primo; aperti gli altri da ampie bifore e trifore dove gli archi poggiano su esili colonne elegantemente decorate a tarsie laviche. Le decorazioni di torri merlate e gli stemmi, le targhe e le armi dei Chiaramonte che ornano le pareti delle stanze interne, sono elementi caratteristici di questo palazzo. Il suo progetto rappresenta l’anello di congiunzione tra il classico castello medievale e i palazzi patrizi, arricchito poi con affreschi e opere commissionate da Manfredi III Chiaramonte. Tutti i vani prendono luce da bifore poste sui prospetti, tranne il salone settentrionale che presenta due serie di eleganti trifore sui due lati lunghi e si affaccia sulla corte interna. Le aperture sono impostate su esili colonnine, di cui alcune tortili, e concluse da archetti decorati da fasce bicrome o da ghiere a bastoni disposti a zig-zag; un’ampia cornice archiacuta a delicati motivi geometrici intrecciati racchiude le finestre. Nelle trifore, tre decorazioni circolari, inserite nella lunetta, formano un ulteriore motivo decorativo. Le finestre del secondo piano sono più semplici ed hanno minore cura del dettaglio. Durante i secoli il Palazzo mutò diverse volte la sua destinazione d’uso: nell’epoca spagnola fu residenza dei Viceré spagnoli, segnò Palazzo Steri con la presenza del viceré di Sicilia e vide avvicendarsi Ferdinando II e Carlo V d’Asburgo, ossia il duca e conte di Monteleone, Ettore Pignatelli. Ma ospitò, anche, gli Uffici della Dogana, fu sede del Tribunale della Santa Inquisizione con annesse Carceri della Penitenza dal 1601 al 1782. Particolarmente interessante è anche il ritrovamento di una struttura sotterranea della lunghezza di sette metri, sovrastata da volte con costoloni di grandi dimensioni. Tale struttura sarebbe stata costruita durante il XIV secolo e al suo interno sono stati rinvenuti graffiti e altri reperti che precedevano la sua costruzione di ben tre secoli. Gli ambienti interni di maggiore rilievo sono, la Sala delle Armi, Scala dei Baroni, il Carcere dei Penitenziati, la Sala del viceré, Sala delle Udienze, Sala Magna o dei Baroni, Sala delle Capriate e la Stanza dell’inquisitore. La Sala dei Baroni contiene dei dipinti sul soffitto che vennero eseguiti da Cecco di Naro, Pellegrino Darena e Simone da Corleone, tra il 1377 e il 1380, le quali raffigurazioni mostrano spaccati della società trecentesca. In questi dipinti sono trattati temi come la cavalleria, i momenti di massima epicità ed esaltazione romanzesca e la stessa la si trova riferita alle figure femminili. Lo Steri perse la funzione di tribunale di giustizia nel 1598, quando questo fu trasferito presso Palazzo Reale, divenendo solo due anni dopo tribunale dell’inquisizione, fungendo da sede per il Carcere dei Penitenziati, nel quale vi erano le terribili celle filippine. In epoca borbonica venne dato nuovo volto al Palazzo Steri da Domenico Caracciolo, viceré di Sicilia e marchese di Villamarina, che dispose la distruzione degli strumenti di tortura e purtroppo, dell’archivio segreto. Ospitò anche la sede del Rifugio dei Poveri di San Dionisio, ma solo per qualche anno, per poi divenire sede della Regia Dogana e degli Uffici Giudiziari dal 1800 fino alla fine degli anni ’50. Ai giorni nostri, Palazzo Steri si mostra in tutto il suo splendore grazie a un progetto di restauro eseguita degli anni ’50 a opera di Carlo Scarpa, trasferendovi successivamente la sede del rettorato dell’Università, la quale risiedeva inizialmente nel convento dei Teatini. Il restauro non fu solo un’opera di recupero dell’antico splendore del palazzo, ma durante i lavori furono eliminati molti elementi che potessero ricordare il periodo buio dell’inquisizione, come la piattaforma dei condannati, l’antico orologio, le gabbie interne, la Scala dei Baroni e altre opere che potessero ricollegare il palazzo a quel periodo.

Palazzo Chiaramonte – Steri

 

Portale di Piazza Marina.

 

Particolare della facciata

 

Bifore con tarsie in pietra lavica

 

Trifora con decorazioni a tarsie laviche

 

Trifora con rosoni, girali e decorazione a zig zag

 

Soffitto ligneo nella Sala Magna o Sala dei Baroni

 

Scavi con reperti d’epoca araba

 

I graffiti e le carceri di Palazzo Steri

 

Graffiti nelle vecchie carceri di Palazzo-Chiaramonte Steri. Non sono solo gli affreschi e i dipinti che raccontano storie vissute all’interno di Palazzo Steri, ma perfino nelle sue fondamenta è possibile trova indelebili segni della vita trascorsa tra quelle mura. Scendendo nelle buie prigioni di Palazzo Steri è possibile ammirare i graffiti sulle pareti, lasciate però dai carcerati che hanno occupato per lunghi o brevi periodi, quelle celle. Proprio in corrispondenza delle prigioni del palazzo, è stato istituito un museo, realizzato soprattutto dopo i più recenti rinvenimenti fatti in 3 celle. Tali graffiti sono differenti dagli altri, poiché fanno parte della zona in cui venivano imprigionate ”le recluse”, donne accusate di stregoneria, le quali hanno tracciato nei muri, figure umane e probabili riti d’invocazione. Sono state trovate anche incisioni di frasi in dialetto antico e, dei rinvenimenti più sorprendenti, non si può non menzionare parte di un dipinto che raffigura una nave, o almeno se ne vede solo parte della prua, sulla quale figura un inquisitore che regge in mano un campanaccio.

 

Graffiti nella Sala delle udienze

 

Iscrizioni dei detenuti

 

Testimonianza del pescatore Mannarino all’interno delle carceri di Palazzo Steri

 

Uno dei disegni delle celle

 

Graffiti a Palazzo Chiaramonte

 

Graffito con immagine della condanna alle galere

 

Cortile

 

Cortile

 

Palazzo Sclafani

 

La facciata sud di Palazzo Sclafani, in Piazza San Giovanni Decollato

 

Nel cuore della città antica, a due passi da piazza Vittoria, in Piazza San Giovanni Decollato, Palazzo Sclafani è uno degli edifici nobiliari più insigni della città. Sorge in prossimità del Palazzo dei Normanni a Palermo e quindi in una posizione privilegiata, fu costruito nel 1330 dal feudatario Matteo Sclafani, conte di Adernò (Adrano) e di Ciminna, lo fece erigere, pare, in meno di un anno per una sorta di rivalsa nei confronti del cognato Manfredi Chiaramonte che aveva fatto edificare lo Steri a piazza Marina. Alla sua morte avvenuta nel 1354 l’edificio subisce un lungo periodo di abbandono fino a quando, nel 1429, il frate benedettino di S. Martino delle Scale, Frà Giuliano Majali, indirizza al Senato una supplica per ottenere il privilegio di fondare un grande Ospedale che accorpasse i ventidue ospedali sparsi per la città, e nello stesso anno ottiene dal re Alfonso l’assenso per trasformarlo in ospedale. Nel 1435 il Senato cittadino acquista il Palazzo che diventerà l’Ospedale Grande e Nuovo. La nuova struttura ospedaliera si abbellisce di nuove opere d’arte tra le quali il Trionfo della Morte, oggi alla Galleria Regionale della Sicilia di Palazzo Abatellis. l’edificio, imponente e massiccio, a pianta quadrangolare con grande atrio centrale. La facciata conserva intatto il suo aspetto medievale, la ingentilisce un elegante intreccio di archi ogivali con intarsi in tufo nero, colore che è composto da pietra lavica dell’Etna, racchiude al primo ordine una serie di e finestrelle bifore, con i decori a conci bianchi e neri tipici dello stile Gotico-catalano. Nella sottostante compatta cortina, originariamente chiusa (le finestre furono realizzate alla fine dell’800), sopra il bel portale marmoreo. Sotto, un’iscrizione originale contiene un riferimento alla committenza. Un’originale edicola trilobata mostra stemma nobiliare della famiglia Sclafani, due gru affrontate, con le armi ed un’aquila dello scultore Bonaiuto Pisano.

 

La facciata ovest di Palazzo Sclafani, in Piazza della Vittoria

 

La facciata sud di Palazzo Sclafani con l’ Arco dei Biscotti sullo sfondo

 

L’Arco dei Biscotti

 

Il portale sud del palazzo

 

La decorazione sopra il portale sud del palazzo

 

Lo stemma della famiglia Sclafani

 

All’interno vi è un cortile quadrangolare, dove recentemente sono stati scoperti i resti di un’antica casa romana. Il famoso affresco cinquecentesco noto come Il Trionfo della Morte, originariamente collocato qui, è oggi esposto al museo di Palazzo Abatellis.

 

Cortile interno

 

Particolare del cortile interno. Finestre con archi ogivali

 

Copertura del soffitto

 

Soffitto in legno

 

Il Trionfo della Morte, esposto nella Sala II di Palazzo Abatellis

 

Finestra dall’interno

 

Un altro affresco che era posto nel cortile, ad opera di Pietro Novelli, rappresenta la Madonna con le Sante Vergini palermitane ed è stato spostato nella Biblioteca dello stesso palazzo Sclafani. Durante la sua funzione di ospedale, conservata fino alla metà dell’Ottocento, una ruota degli esposti – ora murata, ma ancora visibile in via Matteo Sclafani di fronte all’Infermeria dei Cappuccini accoglieva i bimbi e le bimbe abbandonati che venivano allevati fino ai 5 anni di età per i maschietti e fino ai 7 per le femminucce. avviati alla carriera monastica o militare, mentre le seconde venivano trasferite nei monasteri o come operaie della lavorazione della seta nell’Albergo delle Povere in corso Calatafimi. In questo periodo vennero aggiunti dei corpi di fabbrica e il palazzo subì trasformazioni per l’adattamento ad ospedale. Finita la funzione ospedaliera, nel 1852 entrò nelle mani dell’Amministrazione militare diventando Quartiere di Truppa borbonico. Alla fine dell’Ottocento il Genio Militare restaurò la facciata che stava andando in rovina. Si trattò di un consolidamento opportuno, che servì alla resistenza dell’ala meridionale durante i bombardamenti dell’ultima guerra mondiale. Oggi è sede dei comandi militari. Gli ultimi restauri risalgono al decennio 1988-1998 tramite la Sovrintendenza ai Beni culturali, per restituire al palazzo la sua primitiva impronta estetica. Durante i lavori vennero alla luce i resti di una villa romana del primo sec. a.C., che era posizionata all’incirca di fronte all’altra riscoperta nella villa Bonanno.

 

Particolari degli scavi

 

Particolari degli scavi

 

Chiesa di Santa Maria degli Angeli, meglio conosciuta col nome di “Gancia”

 

Nel cuore nel quartiere arabo della Kalsa, è ubicata la Chiesa di Santa Maria degli Angeli, meglio conosciuta col nome di “Gancia”, ossia ospizio per malati e forestieri, è un complesso architettonico risalente al 1490 ed edificata dai frati francescani.

 

 

Il prospetto principale, al di sopra una lunga monofora, è costituito da un portale con arco (il termine tecnico è archivolto) a tutto sesto sostenuto da peducci pensili e il leggero strombo sono residui di una tradizione gotico-catalana che in Sicilia tardava a lasciare spazio alle forme del maturo rinascimento del 1530. Per via della importanza cui stava assurgendo la via Alloro con le sue notevolissime architetture, il prospetto laterale sulla strada risultò essere il principale. Quello laterale da un portale con arco a sesto ribassato, sopra il quale vi è un bassorilievo raffigurante la Vergine degli Angeli.

 

portale con arco a tutto sesto

 

La ricostruzione e l’opera decorativa che ne seguirono diedero alla chiesa una configurazione barocca, dovuta soprattutto agli affreschi delle cappelle e della navata, e agli stucchi, andati poi perduti, eseguiti negli anni’80 del’600 da Giacomo Serpotta, Andrea Surfarello e Gaspare La Farina. L’attuale decorazione in stucco, a semplici ornati, risale alla metà del XIX secolo. I muri alti della navata ospitano, tra arco ed arco, dodici quadroni a fresco polilobati con figure di Santi francescani.

 

Facciata posteriore

 

La Chiesa è a croce latina con le cappelle, e relative arcate, ai lati della navata. Sopra la porta centrale, sorretto da due colonne in marmo, risalta il rinascimentale coro ligneo su cui è collocato un organo di grande valore storico-artistico costruito dal famoso organista Raffaele La Valle nel 1615 su commissione del senato cittadino di Palermo, e rielaborato nel 1772 da Giacomo Andronico con pezzi originali.  Il sottocoro è decorato con rosette al cui centro vi è un ottagono con ritagliata una colomba, simbolo dello Spirito Santo. Originario il soffitto ligneo, costituito da formelle dorate, che copre la navata e il transetto, tutto dipinto di stelle su fondo blu cielo è attribuito ad Antonello Gagini.

 

Navata

 

Presbiterio e arco trionfale.

Controfacciata.

    

Tetto ligneo

Pulpito

      

Interno chiesa con lo sfondo dell’organo.

 

Organo di grande valore storico-artistico costruito dal famoso organista Raffaele La Valle

 

Sopra le cappelle tra le arcate vi sono dei magnifici affreschi che raffigurano dodici santi francescani. Le cappelle della chiesa contengono numerose opere d’arte. Le cappelle, dedicate a vari Santi, veri scrigni d’arte, presentano importanti tele, tavole, stucchi, affreschi, manufatti lignei, sculture, decorazioni a marmi mischi, sarcofaghi funerari, bassorilievi, di illustri artisti quali Vincenzo Bongiovanni, Antonello De Crescenzio detto il Panormita, Antonino Grano, Olivio Sozzi, Filippo Tancredi, allievi del Gagini, Vincenzo da Pavia, Pietro Novelli detto il Monrealese, Gaspare Firriolo.

 

   

Cappella del Santissimo Crocifisso già Cappella di San Bonaventura da Bagnoregio, primitiva Cappella di Santa Margherita

Cappella di Santa Maria di Gesù. Nella nicchia la statua marmorea raffigurante Santa Maria di Gesù attribuita ad Antonello Gagini

 

Cappella di San Francesco d’Assisi già Cappella del Beato Salvatore d’Orta. Nella nicchia è collocata la statua lignea raffigurante San Francesco d’Assisi

Cappella di Sant’Antonio di Padova. Nella nicchia è collocata la statua raffigurante Sant’Antonio di Padova

    

Cappella di Santa Maria di Gesù. Nella nicchia la statua marmorea raffigurante Santa Maria di Gesù attribuita ad Antonello Gagini

Cappella dei Santi Giacomo della Marca e Francesco Solano già Cappella della Madonna dei Pericoli. Nell’ambiente pitture di Olivio Sozzi e Filippo Tancredi

 

 

Cappella della Madonna di Monserrato già Cappella Requesens. Nell’ambiente sono presenti pitture di Antonio Grano, Antonello Crescenzio e monumenti funerari opere di Antonello Gagini

Cappella del Beato Francescano de Prado già Cappella della Santa Croce, l’ambiente ospita la vara processionale del Bambinello della Gancia

 

Da notare: Cappella di S. Elisabetta d’Ungheria. Sull’altare S. Pietro d’Alcantara (1646) forse la piu’ “tenebrosa” tra le tele di Pietro Novelli. I due quadroni a fresco con l’Apparizione della Vergine al Santo e la Comunione al Santo da parte di Cristo, attribuibili a Filippo Tancredi. Cappella dell’Annunciazione, interamente rivestita di marmi. Ai lati dell’altare sono le statue in stucco di David (sinistra) e Isaia (destra), riferibili a Gaspare Firriolo; Adorazione dei Magi, affresco della prima metà del XVIII secolo; sotto, monumento sepolcrale di Maria Porcaro Bonamico, con un’urna retta da leoni. Sull’altare Sposalizio della Vergine, capolavoro di Vincenzo da Pavia. La cornice è retta da angeli in stucco serpotteschi; sopra la pala Visione della Sibilla Cumana da parte dell’Imperatore Augusto, gruppo in stucco di Giacomo Serpotta, autore anche della deliziosa figura di monachino.

 

     

Cappella di Santa Elisabetta d’Ungheria. Dipinto raffigurante Estasi di San Francesco, opera di Antonio Grano.

Cappella di San Pietro d’Alcantara. Dipinto raffigurante San Pietro d’Alcantara opera di Pietro Novelli, quadroni di Filippo Tancredi

 

Cappella di Santa Elisabetta già Cappella Santa Rosa da Viterbo. Affreschi di Filippo Tancredi

Cappella dell’Ecce Homo, sull’altare la stata lignea raffiguralte l’Ecce Homo. Affreschi di Guglielmo Borremans

      

Cappella della Madonna del Rosario già Cappella di Santa Caterina da Bologna primitiva Cappella di San Diego. Pitture, sculture di Antonello Gagini

Cappella del Bambin Gesù già Cappella di Santa Maria Nunziata o Cappella del Bambinello della Gancia. Le statue di David e Isaia sono opere di Gaspare Firriolo

 

   

Absidiola sinistraː Cappella dello Sposalizio della Vergine e San Giuseppe

Absidiola sinistraː Cappella dello Sposalizio della Vergine e San Giuseppe

 

Sul lato destro vi è un pulpito marmoreo, un capolavoro rinascimentale della scuola del Gagini: vi sono rappresentati la Resurrezione, Cristo nel Limbo e gli Evangelisti. Nel transetto di destra spiccano una tavola del Cinquecento raffigurante la Madonna di Loreto e una tela di Vincenzo Bongiovanni del 1730 con l’apparizione della Vergine di Guadalupe. A destra dell’abside la cappella di Nostra Signora di Guadalupe contiene affreschi di Giacomo e Procopio Serpotta e dipinti di Vincenzo Bongiovanni, Vincenzo da Pavia e Mario di Laurito. Tra le lapidi sepolcrali di inquisitori spagnoli dell’arco d’ingresso si trova la tomba di Don Juan Lopezde Cisneros, la cui storia è stata raccontata da Leonardo Sciascia nel libro Morte dell’Inquisitore. 

 

 

Dipinto

Dipinto

 

Dipinto

 

Nell’altare maggiore campeggia una croce lignea con Crocifisso di Venanzio Marvuglia con scene dell’antico testamento. Gli scultori Giuliano Mancino e Bartolomeo Birrittaro sono gli autori del gruppo marmoreo della parete di fondo che rappresenta la Vergine col Bambino e San Francesco. Le pareti e la volta sono affrescate da Filippo Tancredi.

 

Santa Maria di Gesù, statua di stile gaginesco

 

Altare maggiore

 

Cappella esterna absidiola sinistraː Cappella dell’Oratorio dei Terziari Francescani

Crocifisso

 

Nella parte sinistra del transetto, nella cappella dell’Oratorio, è collocata una tela attribuita a Giuseppe Salerno detto lo Zoppo di Gangi che raffigura San Francesco. Ai lati due monumenti funebri attribuiti a Ignazio Marabitti. All’esterno della cappella, a sinistra, un affresco del Tancredi che raffigura Santa Chiara e la Pisside. Dentro la cappella possiamo ammirare la tela del Beato Salvatore d’Orta opera di scuola fiamminga, un crocifisso ligneo e una pietà in marmo, una scultura di scuola del Gagini. Accanto all’altare, la cappella dello Sposalizio presenta, nella volta e nelle lunette e ai lati delle pareti, grandi affreschi di Tancredi con scene bibliche. In alto una grande opera di Giacomo Serpotta; il famoso puttino in saio francescano (il Monachino); sopra l’altare lo sposalizio della Vergine di Vincenzo da Pavia e il gruppo in stucco della “Sibilla Cumana” di Giacomo Serpotta. La Gancia francescana si articola attorno ad un cortile porticato su un solo lato, accessibile da un ingresso alla destra della chiesa. Entrando è visibile, sulla sinistra, un affresco seicentesco raffigurante L’Albero Genealogico dei Frati Minori in Sicilia.

 

     

Ingresso laterale via Alloro

Sepolcro di Giovanni Osorio Quiñones

 

Albero genealogico dell’Ordine dei Frati minori di Sicilia

 

Una parte del Convento è utilizzata quale sede distaccata dell’Archivio di Stato, e funge da sala di lettura di esso il piccolo ex-Oratorio dei Pescatori. Esso reca una bizzarra decorazione in stucco, con putti che cavalcano ippocampi e mostri marini, attribuita a Vincenzo Messina. Di buona mano sono gli affreschi inseriti tra gli esuberanti decori plastici con Scene relative alla vita di S. Pietro nelle pareti e Scene relative alla vita di S. Francesco sulla volta. Un ultimo accenno merita il campanile, edificato nella seconda metà del XV secolo, sulle preesistenti strutture di una torre di difesa di epoca araba, e totalmente rimaneggiato al tempo del viceré Portacarrero, in seguito ai danni del terremoto del settembre del 1726.

 

Chiostro. Torre campanaria d’impianto arabo verosimilmente appartenente al Palazzo dell’Emiro

 

Chiostro

 

Nel cortile del convento francescano, la campana che con i suoi rintocchi diete avvio alla rivolta antiborbonica del 04 aprile 1860

 

Volta affrescata, portico occidentale

 

Oratorio dei Pescatori – interno

 

Sempre su via Alloro, un po’ prima di entrare nella chiesa, una curiosa lastra di marmo scavata affiancata da una lapide che ne commemora l’evento. 4 Aprile 1860: gli antiborbonici insorgono a Palermo contro il re napoletano. La sommossa, scoppiata a pochi passi dalla Gancia in quel che un tempo veniva definito il quartiere degli “scopari” (famoso per le vivacissime zuffe tra donne), viene soffocata nel sangue. Due dei capi rivolta scampati al massacro, Gaspare Bivona e Filippo Patti, per sfuggire alla cattura da parte dei gendarmi borbonici si rifugiano nella cripta della chiesa, tra le sepolture dei frati del convento. Dopo cinque giorni senza né cibo né acqua i due insorti, attraverso una breccia sul muro del convento, riescono ad attirare l’attenzione di una donna che d’accordo con alcune comari mette in scena una grande rissa in quella che oggi è via del 4 Aprile, distogliendo in questo modo l’attenzione dei gendarmi. In un attimo la stradina si trasforma in teatro di urla e spinte: Patti e Bivona approfittando di questo sotterfugio allargano la breccia nel muro riuscendo a scappare indisturbati. Da quel momento la breccia nel muro della Gancia prese il nome di “Buca della salvezza”.

 

la buca della salvezza

 

Palazzo Arcivescovile

 

Occupa un vasto isolato alla superficie della Cattedrale, tra la via Matteo Bonello ed il Cassero. Sorti in epoca diversa e per diversa funzione, furono unificati architettonicamente a metà del XVIII secolo. La cronologia dell’edificio si accorda con le altre note imprese artistiche che videro Simone Beccadelli de’ Bologna, vescovo di Palermo dal 1445 al 1465, direttamente impegnato come committente e mecenate, di antica famiglia, cugino di Antonio Beccadelli de’ Bologna detto il Panormita, noto umanista e precettore di Alfonso. Il futuro vescovo aveva condotto studi di diritto, fu uomo del suo tempo, ambasciatore della città presso Alfonso, e può considerarsi fra i maggiori esponenti della società meridionale dell’epoca, immersa nella dialettica fra “Medioevo umanistico e Umanesimo medievale”. Sul piano delle scelte artistiche, al Vescovo Beccadelli si deve l’avere trasferito la sede del Palazzo Arcivescovile lì dove si trova oggi e ciò per una scelta urbanistica chiara di dare ordine, regola e misura al piano della Cattedrale, cui egli stesso e negli stessi anni dava avvio, completando la definizione del portico meridionale e la spianata antistante. Edificato a cominciare dal 1460. Della facciata principale in stile gotico catalaneggiante non rimangono che un’elegantissima trifora a s. e il geometrico in pietra scolpita; entrambi recano lo stemma dei Bologna. Su uno dei battenti della porta è l’elsa della spada con la quale, secondo una favola nata in età romantica, sarebbe stato ucciso nel 1160 Maione di Bari, ministro di Guglielmo I. Dell’antico edificio del Palazzo arcivescovile rimangono le sottolineature di scultura architettonica, concentrate nel portale ad arco ribassato entro rigorosa cornice che richiama il portale durazzesco che inquadra il San Gerolamo nello studio di Antonello da Messina, oggi alla National Gallery di Londra. Dal portale un lungo androne con una volta a botte, conduce ad un cortile al di là del quale si apre, a sinistra, lo scalone in marmo rosso che conduce ai saloni dei piani superiori, entrambi “ammodernati” nel Settecento. La decorazione a fresco di questa sale fu commissionata a Guglielmo Borremans (1733-34), che realizzò Episodi della vita di Cristo, ritenuti tra i capolavori del maestro fiammingo. Il ciclo di affreschi è stato gravemente manomesso in seguito alle trasformazioni ottocentesche del palazzo; restano figurazioni con i temi della Natività e figure di Profeti. Originariamente più basso dell’attuale, con un piano terreno ed un primo piano e, più in alto, un rustico loggiato aperto, veniva ampliato per la prima volta agli inizi del Cinquecento e una seconda volta dal 1578 al 1588 quando, fra l’altro, veniva realizzato il balcone di Vincenzo Gaggini o Gagini sul prospetto sul Cassaro, che poi sarebbe stato replicato all’altra estremità nell’Ottocento. A più riprese, 1592, 1642, 1659, si eseguivano, in successione, il balcone sull’ingresso principale, i sei di destra e triangolari. Le regolari finestre del secondo piano completavano un disegno generale della facciata composto e ben equilibrato. Dal secondo cortile si accede al Museo Diocesano attualmente in fase di restauro e di riordino dopo un periodo di chiusura quasi trentennale. Le opere d’arte saranno corredate da pannelli didattici, indispensabili per la ricostruzione dell’unità estetica di opere smembrate, quali ad esempio le sculture del retablo gaginiano della Cattedrale, o le tele del soffitto della distrutta chiesa dell’Annunziata, opera di Mario di Laurito. Il museo, che si configura come necessaria prosecuzione delle collezioni di palazzo Abatellis, custodisce opere provenienti da chiese soppresse o andate distrutte nel corso dell’ultima guerra, realizzate dai principali artisti della Sicilia. Degni di nota i trittici dei secoli XII-XV, la sala dedicata all’iconografia di S. Rosalia nei vari secoli, alcuni capolavori di Pietro Novelli, quali la Madonna del Carmelo e Santi e la Pietà, ultima opera dipinta dal maestro monrealese. Sono presenti, inoltre, opere scultoree del rinascimento siciliano provenienti dalla bottega del Gaggini o Gagini, la celebre pietra tombale di cavaliere attribuita a Francesco Laurana, opere di Giorgio Vasari e Luca Giordano e infine una sezione dedicata ai progetti di trasformazione della Cattedrale.

 

Balcone di Vincenzo Caggini o Cagini

 

Balcone di Vincenzo Gagini.

 

Portale principale.

 

Chiesa di San Sebastiano

 

Facciata

 

La chiesa di San Sebastiano a «Porta Carbone» o alla «Marina» o alla «Cala» è un edificio di culto situato nel centro storico di Palermo. È ubicata nei pressi di piazza San Giacomo La Marina e piazza Fonderia, a metà strada tra la Vucciria e il porticciolo della Cala. Costruita in seguito alla demolizione di una preesistente chiesa, realizzata nel 1482 costituiva lo sfondo di una lunga arteria che, partendo dalla via del Capo, e dipanandosi nel vecchio tessuto medioevale della città, attraversava la Loggia, e arrivava fino al mare. Inoltre, si collocava nel punto di innesto (Piano della Fonderia) con la strada che collegava il Castellammare con il Piano della Marina. Ancora oggi, la chiesa costituisce il fondale della via Giovanni Meli, che aveva come quinte le due chiese di S. Maria la Nova, allora in ricostruzione, e quella trecentesca di S. Giacomo la Marina, oggi non più esistente ed è racchiusa da edifici su entrambi i lati. Il suo prospetto posteriore si affaccia sulla Cala è molto semplice e non rispetta gli stessi caratteri stilistici.

Prospetto

 

Sezione

 

Timpano curvo e spezzato

 

Facciata

 

Il progetto della facciata di gusto rinascimentale e di fattura gaginesca è in pietra di Solanto. È caratterizzato da eleganti volute e elementi architettonici inquadrati, tripartita da alte lesene di ordine dorico propri del nuovo stile barocco opera di Antonio Muttone o Montone, con una intelaiatura tipicamente cinquecentesca con due volute laterali di raccordo all’ordine più piccolo, frontonato, della zona centrale. Il portale barocco è sormontato da timpano curvo e spezzato, all’interno è collocato uno stemma a scudo raffigurante San Sebastiano incorniciato da volute che avvolgono due erme e sormontate da un putto alato. L’opera è attribuita allo scultore Gaspare Guercio al pari dell’altro raffigurante i simboli del martirio (fregio adottato dalla Confraternita) che orna il portale destro. La parete della controfacciata accoglie l’affresco raffigurante San Sebastiano morente di Olivio Sozzi con le figure della nobile Irene e dell’ancella che lavano le ferite del martire.

 

Finestra circolare

 

Esterno

 

La chiesa è in stile proto – barocco, la breve scalinata è in pietra di Billiemi. L’edificio ha pianta a croce latina, a tre navate, ognuna con tre cappelle, e con transetto e tribuna. Prospetto a occidente. Cupola ottagonale con archi a tutto sesto, presbiterio di forma quadrangolare. Tre archi a pieno centro, che impostano su colonne di marmo con alti piedistalli, dividono le navate. La dissonanza formale tra le navate e il resto della chiesa è dovuta alle successive ricostruzioni, che non permettono la percezione di una organica concezione spaziale. Le otto colonne di marmo sostengono la navata centrale con volta a botte ripartita in altrettanti spazi, manufatti posti in opera nel 1577 e poggiati su alti e inconsueti plinti. L’artista genovese Giambattista Carabbio ne consegnò solo due, le altre furono commissionate a Marco Antonio Aprile che non rispettò i modelli di riferimento.

 

Planimetria

 
Interno/Transetto

 

Il presbiterio di forma quadrangolare presenta, al pari della navata centrale e i bracci del transetto sono coperti da volte a botte lunettate, mentre con volte a crociera sono coperte le navate laterali. Il centro di croce è coperto da una cupola a pianta ottagonale, che all’esterno è racchiusa in un tiburio, anch’esso ottagonale e che termina con una lanterna a bulbo. La volta della navata centrale è decorata con l’affresco Invocazione a San Sebastiano contro la Peste raffigurante San Sebastiano, Santa Rosalia, San Rocco che al cospetto di Dio e della Vergine rispondono alle invocazioni dei palermitani perorando la fine della peste che flagella la città, opera di Domenico Maria Calvarino. Gli ornamenti delle volte e della cupola ottagonale sono opera dell’architetto del Senato Andrea Palma. Nei quattro pennacchi sono riconoscibili gli Evangelisti, dipinti da Olivio Sozzi del 1740. Ai lati del presbiterio dello stesso autore i quadroni raffiguranti Gesù e Il serpente di bronzo. Del pittore palermitano Vito D’Anna altrettanti quadroni raffiguranti Mosè fra gli Ebrei che compie il miracolo e Sansone che abbatte il tempio. L’altare maggiore è decorato con tarsie di marmi policromi. Le architetture con effetto tridimensionale del presbiterio sono attribuite a Gaspare Fumagalli. Assenza di absidiole sostituite da cantorie con baldacchini al secondo ordine. Parete esterna ala destra: Cappella di San Sebastiano. È documentato l’altare con statua lignea di San Sebastiano. Parete esterna ala sinistra: Cappella della Concezione. Dell’affresco che ornava l’altare del transetto destro rimane l’immagine del Padre Eterno e dello Spirito Santo e tracce del dipinto a «Trompe-l’œil» che fungeva da quinta.

 

Navata sinistra

 

Le navate laterali presentano tre cappelle sul lato sinistro e due su quello destro seguite da una seconda uscita laterale. Tutti gli altari sono abbelliti da preziose cornici con elementi vegetali e frutti, realizzate dal grande maestro stuccatore Giacomo Serpotta, in gran parte rovinate dall’umidità e dall’incuria. Nell’aula sono collocati due sepolcri: uno del 1594, l’altro del 1650. Prima campata: Cappella dell’Annunziata. È documentato l’altare con quadro dell’Annunciazione della scuola di Pietro Novelli. Seconda campata: Cappella di Santa Rosalia. È documentato l’altare con quadro raffigurante Santa Rosalia del 1629 opera di Vincenzo Presti. Oggi la cappella custodisce la statua lignea dell’Ecce Homo. Terza campata: Cappella di Santo Stefano. È documentato l’altare con quadro raffigurante Santo Stefano di Filippo Paladini.

 

Navata destra

 

Seconda campata: Cappella della Vergine. Altare moderno dedicato alla Vergine dei Poveri in ricordo dell’apparizione di Maria a Mariette Beco nella località denominata Banneux nei pressi di Liegi. Nel 1800 la congregazione di San Sebastiano si sciolse e per la chiesa iniziò un lungo periodo di abbandono. Negli anni ‘30 del Novecento, gli spazi abbandonati vennero utilizzati dalla Soprintendenza di Palermo come magazzino per le opere d’arte. Nella seconda metà del XVI secolo una consistente serie di fabbriche religiose subì radicali mutazioni nel corpo dell’abside centrale. Le ragioni di questo fenomeno sono note e intrecciano prescrizioni liturgiche, patrocini aristocratici per sepolture collocate nell’altare maggiore, rinnovate esigenze estetiche (S. Sebastiano, San Francesco d’Assisi, S. Antonino, San Martino delle Scale). Sappiamo che Giuseppe Giacalone propose una modifica analoga nella chiesa madre di Piazza Armerina, considerandola sufficiente per l’ammodernamento della struttura in opposizione agli architetti che avevano proposto la realizzazione di un grandioso tempio centrico. Antonio Muttone nel 1598 realizza, secondo gli stessi principi stilistici, ma con un disegno più articolato, anche la chiesa di Sant’Ignazio all’Olivella. Le analogie si possono ritrovare nel rapporto tra gli spazi pieni e i vuoti delle finestre e delle porte. Nel 1943 la chiesa venne danneggiata dai bombardamenti. Si verificano lesioni ai muri, alle volte della tribuna, al transetto ed alla cupola, danni ai tetti, rottura degli infissi, prospetto scheggiato e mutilato. A seguito di ciò, nel 1946 vennero eseguiti degli interventi di restauro a cura della Soprintendenza ai Monumenti di Palermo che hanno riguardato prevalentemente la chiusura degli accessi e di brecce nei muri, la fasciatura di una colonna lesionata nella nave, la riparazione dei tetti (Guiotto, 1946).Tra il 1974 e il 1977 vennero eseguiti ulteriori restauri e riparazioni, quali lo smontaggio e la ricostruzione di elementi delle coperture, sistemazione pluviali, demolizione di murature per alloggiamento cordoli in cemento armato, smontaggio del lanternino e ricostruzione dello stesso, risarcimenti, consolidamenti intonacature.

 

Altare maggiore

 

Navata sinistra

 

Cappella centrale navata sinistra

 

Chiesa S. Maria di Gesù

 

Complesso Santa Maria di Gesu

 

Santa Maria di Gesù (Santa Maria ri Giasu in dialetto palermitano). È ubicata ai piedi del Monte Grifone, tra le altre borgate di Ciaculli e di Belmonte Chiavelli. La borgata è nota a Palermo per la presenza del cimitero omonimo, e del convento di San Benedetto il Moro, dove ne sono custodite le reliquie. Il primo nucleo del complesso risale al 1426 e fu voluto da un frate francescano di Agrigento, il beato Matteo da Girgenti, che chiamato a predicare a Palermo fu invitato a fondare un convento. Due coniugi, Antonio e Betta Mirabile regalano al frate il terreno per consentirne la costruzione del primo nucleo: sulla porta della chiesa era riportato il ricordo di questa donazione.  Nacque così il convento che il frate francescano chiamò “Santa Maria di Gesù“, come tutti i conventi da lui fondati in Sicilia. Morto Matteo da Girgenti il corpo del frate fu conteso in una disputa fra i frati francescani che non volevano cederlo perché il frate era morto nel loro convento e i frati di Santa Maria di Gesù che volevano appropriarsene perché il frate era stato il loro fondatore. Quest’ultimi riuscirono a trafugare il corpo del frate ma a Piazza Guadagna furono raggiunti dai frati francescani che comunque non riuscirono ad appropriarsi del corpo in quanto una forte tempesta, che si è ritenuta mandata da Dio, li fece desistere. Nel luogo di questo prodigio fu innalzata una croce di marmo tutt’ora visibile nella piazza. In principio il complesso comprendeva solo una piccola chiesetta di appena 6 canne per 4, e considerando che la canna equivaleva a poco più di 2,10 metri, si capisce quanto era minuscola. alcune celle per i frati, intorno ad un chiostro a forma quadrata con una fontana al centro. Ma per l’esemplarità e la devozione dei fraticelli, il luogo venne preso a cuore dai palermitani che consideravano Santa Maria di Gesù un luogo sacro. Poi la comunità crebbe notevolmente e nel 1578 fu necessario costruire un secondo piano con celle e altri locali comuni per ospitare frati, novizi e postulanti che desideravano far parte della Comunità. Proprio in quel periodo visse nel convento Benedetto da Sanfratello, il fraticello nero figlio di schiavi africani, che per la sua fama di sant’uomo sarebbe stato proclamato Santo, il primo Santo nero canonizzato dalla chiesa cattolica e proclamato, per diversi decenni, patrono e protettore di Palermo insieme a Santa Rosalia. Ben presto venne ampliata con l’annessione di due cappelle sepolcrali: sul davanti quella di Gaspare Bonet, per cui l’ingresso della cappella divenne il portale della chiesa; nella parte posteriore fu inglobata la cappella La Grua e Talamanca, che consentì la costruzione del coro dietro l’altare maggiore.

 

Portale del vecchio ingresso della Chiesa

  

Nello spiazzo antistante la chiesa, nel 1634, il duca di Alcalà, viceré della Sicilia, vi fece erigere una fontana in marmo con le armi e gli stemmi della casata ed i putti e leoni che gettavano acqua (adesso è asciutta e i leoni sono spariti). Tutt’intorno sorge il cimitero di Santa Maria di Gesù.

 

Fontana del cimitero

 

Si accede alla chiesa, ad unica navata centrale, da tre ingressi. Il portale principale è quello rinascimentale in marmo attribuito ad Andrea Mancino. Sull’architrave è scolpita l’immagine di Dio Padre benedicente circondato da cherubini e angeli in adorazione. Gli stipiti sono suddivisi in riquadri in cui sono rappresentati i busti dei 12 apostoli che hanno in mano i cartigli con passi del Credo.

 

Cappella La Grua e Talamanca

Dettaglio del portale rinascimentale

   

Gli altri due ingressi sono entrambi del XV secolo: il primo è un portale gotico a doppio arco ogivale al di sopra del quale è un bassorilievo della Vergine col Bambino. L’altro ingresso, che dava accesso alla cappella La Grua e Talamanca, è un portale gotico catalano con tre cornici e gli stemmi di famiglia. Famiglia tristemente nota in Sicilia per via dell’atroce omicidio che subì Laura Lanza, sposata La Grua e Talamanca e meglio nota come la baronessa di Carini. Attraversati due archi si accede all’ingresso principale della navata della chiesa, si accede al portico sotto il coro superiore. L’abside è incorniciata da un doppio arco in stile normanno e in fondo alla grande cappella sull’altare vi è un quadro dedicato alla Madonna, ma è di epoca più tarda.

 

Navata della Chiesa e altare maggiore

 

Interessante è l’Altare di Santa Maria di Gesù, che ospita la statua della Madonna col bambino: il manufatto in legno policromo giunse in chiesa intorno al 1470, secondo una leggenda portato dal mare in maniera miracolosa, e inizialmente collocata sull’altare maggiore. In seguito l’altare con la balaustra in marmo fu smembrato e oggi la madonnina è posta in una cappelletta laterale appesantita dai ghirigori barocchi di marmi mischi.

 

Cappella con la Madonna col bambino dicadente

Teca con le spoglie di San Benedetto

  

A destra e a sinistra della navata si aprono rispettivamente la Cappelletta della Madonna, presso il Cornu Evangelii, cioè il lato della chiesa da cui si proclamava il Vangelo, e dove è documentata la primitiva sepoltura del Beato Matteo d’Agrigento; e la Cappelletta dell’Ecce Homo, dove è custodita l’antica immagine di Gesù sofferente, un tempo collocata sull’altare maggiore, che tanta devozione aveva suscitato nel popolo palermitano. Inoltre a destra e a sinistra si trovano la Cappella di San Benedetto il Moro e la Cappella del beato Matteo. Una teca in vetro contiene le spoglie di San Benedetto. Il volto del santo è stato riprodotto in cera mentre il corpo sembra che sia proprio quello del santo mummificato dal tempo. Per Palermo, Benedetto è stato un santo importante per la sua storia tanto commovente quanto interessante: il primo santo di colore, addirittura proclamato compatrono della città insieme a santa Rosalia! 

 

Tela con dipinto danneggiato dall’allagamento del convento

Cappella di S. Matteo di Girgenti

  

Volta affrescata

 

Il coro della chiesa

 

Portale gotico a doppio arco ogivale

 

Cappelle gentilizie del Cimitero

 

Un tempo e fino al 1700 i morti di un certo rango venivano sepolti nelle chiese. Lo stesso vale per Santa Maria di Gesù, che ospitò nella cripta della chiesa e nella chiesa stessa i frati e anche i nobili, così come è testimoniato dalle numerose lapidi presenti. Ma ben presto intorno alla chiesa vennero erette cappelle nobiliari come quelle dei La Grua e Talamanca, dei Lucchesi Palli di Campofranco / Pignatelli Aragona Cortes, dei Lanza di Scalea, e altre progettate da architetti famosi insieme a sepolture della gente comune. Oggi il cimitero si è ingrandito e altre cappelle ricordano personaggi di spicco della nostra città, tra le altre la cappella dei Florio dove riposano personaggi entrati nel cuore dei palermitani: il capostipite Vincenzo Florio, Vincenzo Jr, Ignazio Florio jr e la moglie Franca Florio, nata Francesca Jacona della Motta di San Giuliano. Da ricordare che anche la famiglia Borsellino ha in questo cimitero la sua cappella dove riposano Paolo e la sorella Rita.

 

 

Interno cappella Borsellino

Cappella Florio

 

Cappella Palli Pignatelli Aragona

 

Prima sepoltura di San Benedetto

 

Porticato del chiostro

 

Pozzo del chiostro

 

Sarcofago del 400

 

Sarcofago del chiostro

 

Palazzo Abatellis

 

Descrizione dell‘opera:

 

La storia della fondazione dell’edificio è detta nelle due iscrizioni ai lati del portale principale. In quella di destra sono ricordati l’anno in cui fu edificato il palazzo, cioè il 1495 ed il nome del fondatore Francesco Patella, cavaliere palermitano. Maestro Portolano del Regno sotto il re Ferdinando il Cattolico e sposato alla spagnola Eleonora Solera. Nell’altra di sinistra è detto invece, con militaresca albagia (Alteriga, boria), come il Patella abbia ben diritto a godersi gli onori e le ricchezze guadagnate con sangue; alle mobili tende ha finalmente potuto sostituire un palazzo in muratura. Questo era stato edificato anche per gli eredi; ma essi non vennero neanche con la seconda moglie, la palermitana Maria Tocco, onde fu necessario destinarlo alla fondazione di un pio istituto. Dal 1526 vi ebbero la loro sede le monache domenicane della Madonna della Pietà. Furono necessari numerosi adattamenti per renderlo adeguato alle esigenze della vita monastica, le diverse ali furono frazionate. Furono necessari numerosi adattamenti per renderlo adeguato alle esigenze della vita monastica, diverse ali furono frazionate per realizzate celle e corridoi. All’esterno le finestre furono modificate e furono tolte le colonnine intermedie e, a volte, anche alcuni elementi decorativi. Nel 1553 il palazzo fu denominato monastero del Portolano. Per le esigenze della comunità religiosa fu necessaria l’edificazione di una cappella costruita sul lato sinistro del palazzo occultando uno dei prospetti. Questa cappella fu eretta negli anni 1535-1541 dall’architetto Antonio Belguardo e prese il nome di chiesa di Santa Maria della Pietà. Il luogo di culto presentava il prospetto rivolto a settentrione e l’altare a mezzogiorno in un’area adiacente la porta antica del Palazzo. Nel XVII secolo con la costruzione di una chiesa più grande (l’odierna chiesa Santa Maria della Pietà) con ingresso principale su via Butera, la cappella fu abolita e suddivisa in diversi vani, la parte anteriore con l’ingresso su via Alloro fu adibita a parlatorio mentre nella parte retrostante fu realizzata una porta di accesso nel muro dell’abside, tolto l’altare e tramutata in magazzini. Con l’emanazione delle leggi eversive il monastero fu tuttavia mantenuto, in via straordinaria, alle religiose domenicane. Durante la notte tra il 16 e il 17 aprile 1943, il palazzo fu colpito durante un bombardamento aereo del secondo conflitto mondiale, evento che determinò il crollo parziale dell’ala sud-occidentale e della parete della torre ovest. Finita la guerra si decise di provvedere al suo restauro e di trasformare il palazzo in “Galleria d’Arte per le collezioni d’arte medievale”. Prima di questa sede le opere facevano parte della Pinacoteca della Regia Università e, dal 1866 in poi, delle collezioni del museo archeologico regionale “Antonio Salinas”. La Soprintendenza ai Monumenti affidò quindi all’architetto Mario Guiotto e successivamente all’architetto Armando Dillon i valori di consolidamento e di restauro. Furono tolte le superfetazioni e furono ricostruiti il portico, la loggia e il salone centrale di cui era crollato il soffitto. Questi lavori furono ultimati a metà 1953 e fu chiamato Carlo Scarpa per curare l’allestimento e l’arredamento della Galleria che venne aperta al pubblico il 23 giugno del 1954. Scarpa realizzò anche diversi adattamenti di questi restauri per le necessità dell’allestimento. Nel 1977 le competenze dei beni culturali passarono alla Regione Siciliana e la Galleria divenne regionale. Il 04 febbraio 2008 il museo è stato temporaneamente chiuso per effettuare lavori di restauro, e il 12 novembre 2009 è stato riaperto. Conservando il lavoro di Scarpa, sono state riviste create nuove ali (le nuove sale verde e rossa) ai piani superiori compresa una terrazza sul tetto.

 

La costruzione

 

Bell’edificio in stile gotico-catalano con elementi rinascimentali progettato da Matteo Carnalivari, attivo a Palermo verso la fine del ‘400. Il palazzo doveva stampare chiaro l’impressum di chi lo avrebbe abitato ed il suo potere doveva essere denunciato apertamente alla città. Si stabiliva nell’incarico che il Carnalivari si servisse di dodici” fabricatores”. Tra questi Juan Casada, intagliatore majorchino, a cui veniva dato incarico di intagliare tutte le finestre” ad duas columnas”, cioè trifore. E sono proprio le finestre, come anche i cornicioni marcati, i torrioni merlati aggettanti su archetti pensili trilobati a fare assomigliare stilisticamente il palazzo alla Loggia di Valencia e il suo bel cortile con doppio loggiato alle coeve case spagnole. L’ edificio a pianta rettangolare con cortile interno, costruito con pietre d’intaglio, si sviluppa su due livelli raccordati da due scale scoperte che si fronteggiano e da un magnifico loggiato a due ordini con archi a sesto ribassato al piano terra e archi a tutto sesto al piano superiore. Nell’angolo destro è l’originale scala d’accesso al piano nobile. Il prospetto su via Alloro è racchiuso tra le due torri, di cui quella di sinistra mai completata, che inquadrano il secondo ordine e l’intero palazzo. Nel primo ordine spicca l’ampio portale, quadrato composto di telai e bastoni intrecciati, che ripetuti in fuga prospettica, sono inquadrati da quello più esterno legato saldamente dal cordone francescano. Ai due lati le lapidi e sopra i tre rombi alla maniera aragonese. Il bellissimo portale introduce in un andito ad arco ribassato, attraverso il quale, si entra nel cortile sul cui fondo un altro bel portale sempre ad arco ribassato. Questa assialità è interrotta bruscamente dalla doppia loggia sulla destra che indica il percorso da compiere verso il sistema scala – sala nobile. Nel secondo ordine le cinque finestre trifore rettangolari, gotico-fiammeggianti, composte da tre archetti ogivali traforati poggianti su esili colonnine.

 

Il portale

 

Su via Alloro spicca il portale, pare addirittura importato per intero dalla Spagna, che mostra una composizione di telai e bastoni intrecciati, che ripetuti in fuga prospettica, sono inquadrati da quello più esterno legato saldamente dal cordone francescano. Ai due lati le lapidi e sopra i tre rombi alla maniera aragonese. Il bellissimo portale introduce in un andito ad arco ribassato, attraverso il quale, si entra nel cortile sul cui fondo un altro bel portale sempre ad arco ribassato.

 

Lapidi sul prospetto principale

 

(lapide di sinistra)

Dalla battaglia combattuta contro i Francesi e gli Spagnoli sotto la guida del re Sicano mi è testimone il sovrano che mi diede fame di lealtà, attribuì onori alla virtù e ricompense dovizia se per l’emerita carriera militare, ora io in luogo degli accampamenti erigo una nobile dimora perché possa così godere di queste ricchezze guadagnate col sangue.

(lapide di sinistra)

IN GALLOS INQUE HISPANOS SUB REGE SICANO PRELIA QUAE GESSI REX MIHI TESTIS ADEST QUI FIDEI TITULOS DEDIT ET VIRTUTIS HONORES DITIAQUE EMERITE PREMIA MILITIE NUNC EGO PRO CASTRIS PRECLARA PALATIA PONO UT FRUAR HIS PARTIS SANGUINE DIVITIIS

(lapide di destra)

Al tempo di Ferdinando (Ferdinando II D’Aragona) re di Mauritania Spagna Betica (sud) e Sicilia, propugnatore della fede cristiana Francesco Patella cavaliere palermitano regio alunno (pari del re) maestro Portulano costruì questa dimora per sé per la gioia della dolcissima sposa Eleonora Solera di Barcellona e per i discendenti dello stesso Francesco nella XIII indizione (data zione del tempo) 1495

(lapide di destra)

SUB FERDINANDO MAU ROBETICO SICILI(a) E ET HIS PANIAR(um) REGE CHRISTIAN(a) E RELIGIONIS PROPAGATORE FRANCISCUS PATELLA EQUES PANORMITANUS REGIUS ALUM NUS ET EDEATRA REGNI HUI US MAGISTER PORTULANUS SIBI ET HELIONOR (a) E SOLER (a) E BARCHINONENSIS DULCISSIME CONIUGIS DELICIIS IPSIUSQ (ue) FRANCISCI POSTERIS HAS (a)EDES CONSTRUXIT A (n) NO XIIIE IND. MCCCCLXXXXV

 

Le finestre – trifore

 

Nel secondo ordine le cinque finestre trifore rettangolari, gotico-fiammeggianti, composte da tre archetti ogivali traforati poggianti su esili colonnine, intagliate dal majorchino Casada.

 

La torre merlata

 

E sono proprio le finestre, come anche i cornicioni marcati, i torrioni merlati aggettanti su archetti pensili trilobati a fare assomigliare stilisticamente il palazzo alla Loggia di Valencia e il suo bel cortile con doppio loggiato alle coeve case spagnole.

 

Portone principale.

 

Finestre trifore e torre merlate.

 

Torre merlata con finestre trifore.

 

Cortile interno.

 

    

La scala interna progettata da Scarpa.

                               

Pianta piano terra.

 

Pianta primo piano.

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