La nascita dell’arte italiana

Mentre la rinascita dell’architettura avviene a partire dall’anno Mille, bisogna aspettare ancora qualche secolo prima che un analogo fenomeno interessi le arti figurative. Durante il periodo romanico anche la pittura e la scultura conoscono una più intensa produzione, e ciò soprattutto per la decorazione delle cattedrali, ma non conoscono un reale rinnovamento stilistico. Le immagini appaiono bloccate in forme stereotipe, realizzate con povertà di mezzi espressivi. Le sculture, sempre a bassorilievo, hanno figure rigide e geometrizzate. Sia in pittura che in scultura è del tutto sconosciuto il problema della visione in profondità: le figure che animano una scena sono poste su un unico piano di rappresentazione, con evidenti effetti di sproporzione e di irrazionalità spaziale.

Di fatto, in questo periodo, il maggiore centro di irradiazione artistica rimane sempre Bisanzio, e da lì il gusto dell’icone dorate pervade ancora l’Europa occidentale. L’avvio di un’arte figurativa di reale ispirazione europea inizia proprio quando si avverte la necessità di superare gli stilemi figurativi bizantini. Ciò avviene a partire dal XIII secolo in poi, in due aree geografiche precise: l’Italia centrale e la Francia.

In Italia il problema di superare l’arte bizantina viene impostato sul ritorno al naturalismo e alla razionalità terrena della visione, in opposizione al misticismo antinaturalistico bizantino. In Francia, il superamento avviene sul piano della significazione: non più un’arte di ispirazione religiosa che rimandasse ad un ordine teocratico delle cose, ma un’arte laica che esprimesse i nuovi ideali cavallereschi dell’Europa cortese.

Sul piano stilistico le differenze tra arte italiana e arte francese, o gotica, sono notevolissime. La prima imbocca decisamente la strada della tridimensionalità, per giungere a quella rappresentazione del reale che sia in armonia con i reali fenomeni della visione umana. La seconda si mantiene invece sul piano di una concezione antinaturalistica dell’arte, dove alla razionalità della rappresentazione viene preferito l’effetto decorativo delle linee curve e dei colori vivaci. Tuttavia l’arte figurativa sia gotica che italiana mostrano, nel corso del XIII e XIV secolo, una identica destinazione: entrambe sono realizzate come decorazione o arredo degli edifici architettonici, in particolare edifici religiosi: chiese, cattedrali, monasteri, pievi, ecc. E questa particolare subalternità delle arti figurative all’architettura determinò una precisa differenziazione tipologica tra arte italiana e arte gotica. L’edificio gotico ha uno scheletro strutturale di tipo lineare che riesce a liberare ampie superfici da destinare a vetrate. In tali edifici, ridottisi le superfici murarie, l’affresco divenne impraticabile: nacquero così le vetrate istoriate. Le immagini furono realizzate in vetri dai colori vivaci connessi tra loro da sottili piombature, e collocate nei vani delle finestre. In Italia questa rigida concezione strutturale del gotico non ebbe mai ampia diffusione, così che l’architettura praticata in quei secoli offrì sempre ai pittori ampie superfici murarie su cui era possibile intervenire con la classica tecnica della pittura ad affresco.

In un primo momento fu l’arte gotica a egemonizzare il panorama artistico europeo, e ciò fino alla metà del XV secolo. In seguito, con lo sviluppo del rinascimento, fu invece l’arte italiana ad imporre la propria visione artistica all’intero mondo occidentale. Il percorso che l’arte italiana compì per giungere alla nascita del rinascimento durò circa due secoli, e può essere collocato alla prima metà del Duecento. Tema fondamentale per ritrovare una autonoma vocazione artistica fu lo studio dell’antico. Le passate grandezze dell’arte romana mostravano sempre più non solo la superiorità dell’arte classica rispetto a quella medievale, ma indicavano chiaramente la differenza tra l’arte occidentale e quella bizantina. In particolare la prima ha tre fondamenti che all’arte bizantina sono sconosciuti: il naturalismo, il senso della bellezza terrena, il gusto per la narrazione. Ed è proprio partendo da questi tre parametri che l’arte italiana iniziò il suo percorso di affrancamento rispetto all’arte bizantina.

I primi fermenti di questo nuovo atteggiamento culturale – da ricordare che si manifestano negli stessi anni in cui nasce anche la lingua italiana – hanno origine nell’Italia meridionale all’epoca di Federico II. Ma la scomparsa di Federico II nel 1250, fece spostare il baricentro dell’attività artistica e culturale nell’Italia centrale, in particolare in Toscana. Ed è qui che nascono o operano i grandi protagonisti dell’arte italiana. I Pisano, famiglia di scultori il cui capostipite Nicola era forse originario della Puglia, operarono tra Pisa, Siena ed altre città del centro Italia. In particolare, dallo studio degli antichi sarcofagi romani, trassero indicazioni per il recupero dei volumi e dello spazio. Le forme divennero più plastiche e salde, acquistando allo stesso tempo naturalismo e verità. Le loro composizioni, benché a basso rilievo, agivano in uno spazio virtuale ampio, dove i piani di rappresentazione si sviluppavano in profondità. Fu così definitivamente superato il limite della scultura romanica di porre le figure su un unico piano di rappresentazione. E con Giovanni Pisano, il maggiore artista italiano del Trecento, la scultura superò anche il limite che aveva connotato tutta la produzione medievale: il ricorso esclusivo al bassorilievo. Con lui ricomparve, dopo quasi mille anni, la scultura a tutto tondo.

Tra fine Duecento e inizi Trecento anche la pittura aveva trovato la sua precisa autonomia, e ciò grazie soprattutto a Giotto. Egli fu il primo pittore a produrre immagini che possono essere definite realistiche. La sua principale tecnica fu l’uso del chiaroscuro. Sfruttando la diversa tonalità che il colore assume in funzione della luce che colpisce gli oggetti e i corpi, riuscì a dare apparenza tridimensionale alle sue figure. Ma egli ebbe chiari anche altri problemi della riduzione della visione reale in immagini bidimensionali. Tra questi lo scorcio e la prospettiva, che egli iniziò ad applicare in maniera intuitiva, con l’anticipo di quasi un secolo rispetto ai pittori rinascimentali. La sua attività di artista lo portò ad operare in molti centri della penisola, da Roma a Milano, da Firenze a Napoli, da Assisi a Padova, dando ampia diffusione alla sua nuova visione artistica.

Nel Trecento un altro centro mostrò notevole vitalità nell’area toscana: Siena. Qui si affermò, al contrario di Firenze, una visione artistica che la avvicinava maggiormente alla Francia e allo stile gotico. Numerosi furono i protagonisti di questo gotico senese, anche se tra tutti spicca Simone Martini. Nello stesso periodo a Siena l’attività artistica dei fratelli Pietro e Ambrogio Lorenzetti sembrò introdurre nell’arte senese la precisa influenza delle novità giottesche. Ma la loro scomparsa avvenuta nel 1348, contagiati dalla «peste nera» che fece numerosissime vittime anche tra gli artisti, interruppe l’evoluzione del linguaggio pittorico giottesco, e non solo in ambito senese. Nella seconda metà del Trecento furono gli artisti gotici ad imporre nuovamente la loro visione artistica, basata sulle linee curve e leziose, realizzata con colori puri stesi a campiture uniformi, dove prevaleva la evocazione fantastica di un mondo fatato e magico che tanto successo riscuoteva nell’ambito di quelle corti europee che vivevano l’autunno del medioevo.

Il gotico aveva solo vinto una momentanea battaglia. Agli inizi del Quattrocento Firenze produsse alcuni dei massimi geni artistici mai esistiti – Brunelleschi, Masaccio, Donatello – che resero improvvisamente inattuale lo stile gotico, così come Giotto aveva fatto con lo stile bizantino. Da questo momento ebbe inizio il Rinascimento, e con esso la più grande stagione artistica mai verificatasi in Italia. L’arte visiva giunse al massimo controllo possibile della rappresentazione naturalistica, consentendo agli artisti il pieno controllo della propria espressione figurativa.

 

Nicola Pisano

 

Nicola Pisano è la prima personalità artistica, chiaramente riconoscibile, del nuovo indirizzo plastico che si afferma in Italia a partire dalla metà del Duecento. Egli proviene dalla Puglia, dove ha sicuramente partecipato ai cantieri ivi aperti al tempo di Federico II. Da ricordare che in Puglia l’architettura romanica ha prodotto una quantità notevoli di capolavori. Capolavori nei quali la scultura ha sempre un ruolo di primissimo piano. Anzi, si può affermare senza ombra di dubbio, che nel corso della prima metà del Duecento è soprattutto in quest’area che si afferma una visione plastica più ricca sia di spunti espressivi sia di valenze volumetrico-spaziali.

In questo ambiente, sicuramente stimolante per uno scultore, si è formato Nicola, prima di trasferirsi a Pisa, dove ha realizzato i suoi maggiori capolavori. Del 1260 è la realizzazione del pulpito per il Battistero di Pisa. Opera capitale della scultura italiana, questo pulpito ripropone, dopo secoli di letargo, una visione plastica di chiarissima matrice classica. Di qualche anno posteriore è il pulpito che realizza, tra il 1266 e il 1269, per il Duomo di Siena. In quest’opera è affiancato da due collaboratori, che diverranno negli anni successivi i riferimenti principali della scultura italiana: il figlio Giovanni e lo scultore Arnolfo di Cambio.

Altre sue opere sono i lavori per l’arca di San Domenico a Bologna, la cui esecuzione è in massima parte dei suoi collaboratori; alcune sculture per l’esterno del battistero di Pisa e i rilievi della Fonte maggiore di Perugia (1277-1278), realizzate in collaborazione con il figlio Giovanni. Dopo quest’opera si interrompono le notizie di Nicola Pisano, che probabilmente morì pochi anni dopo.

 

Pulpito per il Battistero di Pisa

Nicola Pisano, Pulpito del Battistero di Pisa, 1257-60. Marmi policromi, altezza 4,65 m. Pisa, Battistero.

 

In questa, che è la prima opera documentata di Nicola Pisano, ritroviamo le maggiori novità scultoree del tempo. Inedita è già l’architettura del pulpito, con la sua forma esagonale sostenuta

da archi trilobati poggianti su colonne. Ma ancora più importante è il linguaggio plastico utilizzato da Nicola Pisano, che mostra importanti segni di rinnovamento. Innanzitutto le forme appaiono tornite e piene, con un senso della gravità (le figure poggiano su un piano d’appoggio e non sono come sospese in aria) che non si ritrova nella scultura del tempo. Inoltre le figure, anche se inserite in un bassorilievo, mostrano di scandire lo spazio in profondità, senza disporsi sul solo piano di rappresentazione. Queste sono in fondo le principali novità, non da poco, della scultura di Nicola Pisano: il senso del volume e dello spazio.

È ovvio che questo linguaggio plastico Nicola Pisano non lo elabora dal nulla, ma lo genera dallo stile classico, che egli sicuramente conosceva attraverso lo studio e la visione di opere del periodo romano, quali sarcofaghi e rilievi di archi trionfali e altri monumenti. In pratica è questo il tema fondamentale che guida il rinnovamento artistico italiano dal XIII al XV secolo: ispirarsi all’antico per far rinascere quell’arte classica che veniva avvertita essere superiore alla posteriore arte praticata in quel periodo che noi definiamo Medioevo.

 

Pannello con l’Adorazione dei Magi, Battistero Pisa, Pulpito, 1257-60, Nicola Pisano.

 

Nei sei riquadri principali, che definiscono i lati del pulpito, Nicola Pisano raffigura episodi della vita di Gesù e il Giudizio Universale. Osserviamo il pannello con l’Adorazione dei Magi. Le figure si dispongono in maniera visivamente corretta su almeno tre piani di giacitura: nel primo ci sono i due re Magi inginocchiati; nel secondo il terzo re e il trono dove siede la Madonna con il Bambino; il terzo piano contiene invece l’angelo e san Giuseppe sulla destra. In questo caso il piano della rappresentazione (cioè il piano reale che contiene le figure, e che è sempre unico nel caso di dipinti e bassorilievi) non coincide con il piano visivo, in quanto quest’ultimo si divide almeno in tre piani verticali che vanno in profondità. In pratica lo scultore cerca la sensazione visiva della profondità: non conosce ancora la prospettiva lineare, ma ha già capito il problema della corretta collocazione delle figure sui diversi piani di giacitura verticale. Procede per scansione dei piani, in maniera analoga a quella che vedremo nella pittura, e con questo procedimento cerca di creare la sensazione visiva della profondità: il piano di rappresentazione è il piano anteriore della scena, mentre la scena visivamente si dipana nella terza dimensione virtuale dell’immagine, che non esiste ma che l’occhio percepisce grazie ai corretti rapporti spaziali e dimensionali delle figure.

Siamo ritornati al grande problema dell’immagine: creare sulle due dimensioni la sensazione visiva della terza dimensione di profondità. È questo uno dei pilastri della rappresentazione naturalistica, praticata dall’arte classica, dimenticata dall’arte medievale, e che si cerca ora di far rivivere nella nuova arte italiana del XIII secolo.

Ma osservando le figure di Nicola Pisano si possono ricavare altri elementi di novità. Le figure hanno perso quella fisionomia, nei volti allungati e barbuti, comune a tutta la scultura romanica: ora hanno espressioni anatomicamente più corrette, diversificate anche nelle espressioni caratteriali. I volumi che definiscono le figure sono più saldi e pieni, anche se un certo schematismo lineare rimane nella realizzazione delle pieghe delle vesti.

Nicola Pisano, Pulpito del Battistero di Pisa, pannello con l’Adorazione dei Magi, 1257-60. Marmi policromi.

 

Nicola Pisano, Pulpito del Battistero di Pisa, pannello con la Natività, 1257-60. Marmi policromi.

 

Stilisticamente Nicola Pisano è quindi di una modernità assoluta per il XIII secolo. Lì dove rimane invece ancorato alla cultura figurativa del suo tempo è nella iconografia che adotta. Guardiamo in particolare al pannello con la Natività. Già la composizione della scena, con la Madonna semidistesa e la presenza delle due levatrici in basso, rimanda a opere di concezione bizantina. Ma ancora più tipica della cultura figurativa del tempo è la sincronicità della scena. In pratica in questo pannello non vi è unità di tempo e luogo, ma vengono rappresentate contemporaneamente più scene simultaneamente. In alto a sinistra è raffigurata l’Annunciazione; nella parte centrale e inferiore la Natività vera e propria; quindi nella parte superiore a destra l’Adorazione dei pastori. In questo modo vediamo comparire la Madonna due volte: una prima nella scena dell’Annunciazione, una seconda distesa dopo il parto. Le due figure femminili, collocate una avanti e l’altra immediatamente dietro, non rappresentano quindi due distinti personaggi, ma la stessa persona: la Madonna. Anche il Bambino si trova ad essere rappresentato due volte: in basso mentre viene lavato dalle due levatrici, in alto a destra mentre è nella culla che riceve la visita dei Pastori.

Questa originale impaginazione delle scene, con più episodi contemporanei e la rappresentazione simultanea dello stesso personaggio in diversi momenti, permane a lungo nell’arte italiana del tempo, almeno fino alla metà del Quattrocento.

 

Pulpito per il Duomo di Siena

Nicola Pisano, Pulpito, 1265-68 Marmo, altezza 460 cm Duomo, Siena

 

Questo secondo pulpito di Nicola Pisano fu realizzato tra il 1265 e il 1268 per il Duomo di Siena. In esso troviamo diverse varianti stilistiche rispetto al pulpito di Pisa, che fanno pensare ad una più attiva collaborazione sia del figlio Giovanni sia di Arnolfo di Cambio. In particolare il pulpito appare meno classicheggiante ma più gotico. La differenza tra “classico” e “gotico”, in questo caso come in molti casi analoghi, riguarda la perdita di compostezza a favore di una accentuazione espressionistica delle azioni e delle figure. In pratica l’artista cerca non più la sola armonia formale, ma vuole comunicare l’intensità di un sentimento di partecipazione dolorosa: quel sentimento che definiamo “pathos”, ovvero partecipare, commovendosi, al dolore altrui.

I termini “classico” e “gotico” sono sempre stati considerati antitetici: il primo esprime la visione apollinea di una bellezza che si dà senza altro aggiungere; la seconda esprime il gusto nordico di una deformazione, fino al grottesco, che accentui il sentimento di sofferenza o dolore. Questa componente stilistica di matrice gotica viene in genere definita “patetismo gotico”. Ed è ciò che troviamo in questo pulpito di Siena, così come nelle opere successive di Giovanni Pisano. Non è da dimenticare, del resto, che questo pulpito viene realizzato per una città, quale Siena, nella quale il gusto gotico era sicuramente più accentuato che in altre città toscane, o italiane in genere.

 

Nicola Pisano, Pulpito, pannello con la Natività, 1265-68 Marmo, Duomo, Siena

 

Confrontiamo la “Natività” di questo pulpito senese con quella che compare sul pulpito di Pisa. Il programma iconografico è del tutto identico, ma diverso è il risultato stilistico. Nel caso del pulpito di Pisa la scena si presenta più chiara, con un senso di ordine e di armonia ben precisa. Nel pulpito di Siena la scena è più confusa, ma sicuramente più complessa e virtuosistica: le figure hanno riempito ogni spazio libero, presentandosi con una maggiore varietà di pose, di gesti e di espressioni.

Il pulpito è più complesso anche per la sua struttura architettonica, non più a sei ma a otto lati. La divisione tra i pannelli non è più segnata da colonnine ma da altre statue, che danno al pulpito un aspetto figurativo più continuo e non interrotto da cornici. Tutto ciò fa ritenere che in realtà l’evoluzione dal semplice al complesso abbia di fatto portato quasi spontaneamente Nicola Pisano e i suoi collaboratori verso esiti più in linea con il gusto gotico che allora si diffonde in tutta Europa.

 

Giovanni Pisano

Tra gli scultori attivi a cavallo del XIII e XIV secolo, la personalità più interessante è quella di Giovanni Pisano, nato intorno al 1248 e morto dopo il 1314, figlio di Nicola. La sua prima attività avviene al seguito del padre, con il quale collaboravano in quegli anni altri scultori, tra cui anche Arnolfo di Cambio, che si afferma in seguito come una delle personalità artistiche più importanti del panorama italiano, attivo tra Roma, Orvieto e Firenze. Arnolfo è uno scultore votato al controllo rigoroso della forma e della composizione, giungendo spesso a risultati formali dal gusto un po’ arcaico. Giovanni Pisano, viceversa, è esente da qualsiasi equilibrio e cerca una scultura più carica di tensioni dinamiche ed espressionistiche. Di certo nelle sue scelte stilistiche si avvertono forti componenti gotiche, sia per un suo viaggio in Francia, sia per aver egli operato soprattutto a Siena, dove il gusto gotico era maggiormente di casa. Del resto, proprio nel campo della scultura, il gotico aveva fornito le sue migliori espressioni, ed era facile per uno scultore avvertire in questo stile il senso di una modernità di grande fascino.

Così Giovanni Pisano divenne uno scultore che, pur senza dimenticare la lezione classica del padre, riesce ad esprimersi con una grande forza plastica ed una varietà di registri espressivi, che lo pongono tra i grandi scultori di tutti i tempi.

Tra le sue prime opere vi sono le collaborazioni al pulpito di Siena e alla Fontana di Perugia. Nel 1285 si trasferisce a Siena, dove lavorò alla facciata del Duomo. Dieci anni dopo ritorna a Pisa, dove esegue diversi lavori tra cui il pulpito per il Duomo (1302-1310). Precedentemente aveva realizzato anche un pulpito per il S. Andrea di Pistoia (1297-1301). Successivamente si trasferisce a Genova dove realizza tra il 1312 e il 1313 la tomba per l’imperatrice Margherita di Lussemburgo. Dopo qualche anno muore a Siena.

 

Pulpito per la Chiesa di S. Andrea di Pistoia

Giovanni Pisano, Pulpito, 1298-1301, rilievi in marmo bianco, colonne in porfido, 455 h cm. Pistoia, Pulpito della Chiesa di Sant’Andrea, Pistoia

 

Il pulpito per la chiesa di S. Andrea a Pistoia è stato realizzato da Giovanni Pisano tra il 1297 e il 1301. In questo pulpito ritroviamo molti degli elementi stilistici che differenziano la scultura di Giovanni da quella del padre Nicola. In sintesi, mentre il padre è più classicheggiante, il figlio Giovanni aderisce con maggiore enfasi allo stile gotico che si stava affermando in quegli anni nell’Europa centro settentrionale. Ma il suo goticismo si ritrova soprattutto nella ricerca di effetti di pathos: per il resto la pienezza della forma è ancora di matrice del tutto classicheggiante.

 

Giovanni Pisano, Pulpito, 1298-1301, Chiesa di S. Andrea, Pistoia, pannello con la Strage degli Innocenti

 

Il pulpito è a pianta esagonale, sostenuto da archi gotici trilobati. Dei cinque pannelli che definiscono l’esagono del pulpito (il sesto era aperto per consentirne l’accesso) uno dei più interessanti è quello con la rappresentazione della Strage degli Innocenti. La composizione è giocata su una linea diagonale che parte dall’angolo in alto a destra, dove è posto re Erode, e giunge all’angolo opposto. Questa linea coincide con il braccio teso di re Erode, che ordina la strage di tutti i bambini al di sotto dei due anni. Come un sasso gettato in uno specchio d’acqua, da questo braccio teso si allargano una serie di archi concentrici sui quali lo scultore va a disporre i gruppi di figure. La scena si compone quindi di soldati che cercano di strappare i figli alle madri per ucciderli. Nella scena sono rappresentati, con grande varietà di registri espressivi, diversi momenti di questa strage. Vediamo il soldato che alza il bambino per i piedi, a testa in giù, dopo averlo ucciso; un altro soldato che infila un pugnale nel fianco di un altro bambino; un soldato cerca di strappare alla madre un bambino, afferrandolo per le gambe, mentre la madre cerca di stringerlo a sé. In basso altre madri piangono disperate sui figli che sono già stati uccisi. Tutta la scena è animata da una forte carica di pathos, e lo spettatore non riesce certo a restare indifferente alla violenza così realisticamente rappresentata. La commozione che la scena suscita è un obiettivo che va decisamente oltre la ricerca della pura perfezione formale. In questo Giovanni Pisano dimostra di essere uno scultore decisamente consapevole dei propri mezzi espressivi, che lui piega alla ricerca del grande effetto drammatico. Anche nel pannello con la rappresentazione della Crocifissione, Giovanni Pisano cerca il grande effetto. Il Cristo sulla croce, non ha affatto una posizione statica, ma sembra quasi colto durante un movimento di ripiegamento su sé stesso. Il peso del suo corpo, che pian piano perde le forze, lo porta a piegarsi in basso, e questo movimento sembra trasmettersi a tutta l’atmosfera circostante al punto che le figure al suo intorno vengono quasi schiacciate da questo movimento. Il senso del patetismo gotico si ritrova anche nella esasperata deformazione espressiva dei volti e dei gesti che assumono pose e fattezze quasi teatrali. Ma di certo l’intera scena ha una tale carica di pathos che non si ritrova in altra opera coeva.

 

Pulpito per il Duomo di Pisa

Giovanni Pisano, Pulpito, 1302-1311, rilievi in marmo bianco, colonne in porfido, 455 h cm. Duomo, Pisa

 

Opera di grande complessità, in questo pulpito, realizzato tra il 1302 e il 1310, Giovanni Pisano raggiunge il vertice della sua potenza espressiva. Il pulpito ha una pianta ottagonale, ma gli otto lati a grande curvatura realizzano in pratica un cerchio. La grande complessità dell’opera si nota già negli archi che sorreggono i lati del pulpito: Giovanni Pisano è passato da una forma a sesto acuto ad una che sembra quasi barocca. Anche la struttura complessiva si è arricchita di altre parti scultoree, sostituendo con figure alcune delle colonne di sostegno. In pratica l’intera opera è un virtuosistico esempio della grande padronanza dei mezzi espressivi raggiunta da Giovanni Pisano. Nei pannelli il programma iconografico non si discosta molto dagli altri pulpiti, ma la complessità compositiva è ancora maggiore, così come gli effetti di grande drammaticità di ogni singola scena.

 

Cimabue

 

Il pittore fiorentino Cenni di Pepo soprannominato Cimabue fu uno dei principali protagonisti della pittura italiana della fine del Duecento, così come ci testimonia anche Dante in un famoso passaggio della Divina Commedia (Credette Cimabue ne la pittura/tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,/sì che la fama di colui è scura – Purg. XI, 94-96). Poche le notizie della sua vita: la sua attività è documentata tra il 1272 e il 1302. Secondo il Vasari fu egli il primo pittore italiano a distaccarsi dallo stile bizantino per dar vita al nuovo linguaggio pittorico italiano. In realtà Giorgio Vasari tendeva a sopravvalutare la portata storica del contributo fiorentino al rinnovamento pittorico italiano, mentre la presenza a Roma di Cimabue nel decennio ’70 lo colloca in stretto rapporto con l’ambiente pittorico romano dominato in quegli anni dalle figure di Pietro Cavallini e Jacopo Torriti. Fondamentali alla formazione di Cimabue furono anche due pittori fiorentini quali Coppo di Marcovaldo e Giunta Pisano, i cui modi tardo bizantini furono proprio il punto di partenza dell’evoluzione stilistica di Cimabue. Ma la pittura del maestro fiorentino se ne distaccò per due parametri fondamentali: la maggiore resa volumetrica delle figure attraverso un chiaroscuro di grande forza plastica e la ricerca di una umanizzazione delle figure che rompe definitivamente con la ieraticità delle immagini bizantine. Non molte le sue opere pervenutici, alcune delle quali rovinate anche da recenti eventi, quale l’alluvione a Firenze del 1966 che produsse gravi danni al suo Crocefisso della Chiesa di Santa Croce. Diverse le sue opere su tavola, mentre la sua produzione ad affresco si concentra nei lavori eseguiti per le due basiliche di San Francesco ad Assisi.

 

Crocifisso di Arezzo e S. Croce

Cimabue, Crocifisso, 1268-1271 circa, tempera su tavola, 336×267 cm. Arezzo, Chiesa di San Domenico

 

Il corpus pittorico di Cimabue appare molto controverso, in quanto non abbiamo molte opere sicuramente autografe dell’artista. Unica opera certa è solo la figura a mosaico di San Giovanni realizzata nell’abside del Duomo di Pisa. Tra le opere che la critica ha unanimemente attribuito a Cimabue ci sono due grandi Crocefissi su tavola: uno realizzato per la chiesa di San Domenico ad Arezzo, forse tra il 1265 e il 1268, e uno per la chiesa di Santa Croce a Firenze, realizzato intorno al 1272. Lo schema compositivo è quello già utilizzato dai famosi precedenti di Giunta Pisano e Coppo di Marcovaldo, ma in Cimabue la costruzione della figura del Cristo appare decisamente originale. Cimabue rinuncia all’apparato narrativo che, in genere, veniva collocato negli sportelli, nel piede, nei bracci e nella cimasa. Utilizza solo i bracci per inserire le due figure della Madonna e di San Giovanni. La sua attenzione si concentra solo sulla figura del Cristo, al quale cerca di dare un risalto plastico notevole, attraverso un forte chiaroscuro, così da dare l’illusione che il corpo del Cristo non fosse un’immagine piatta dipinta, ma quasi una scultura lignea.

 

Cimabue, Crocifisso, 1272-1280 circa, tempera su tavola, 448×390 cm. Firenze, Chiesa di Santa Croce

 

Nel crocifisso di Arezzo la derivazione dallo stile bizantino è ancora evidente, anche nella lumeggiatura dorata con la quale tratta il perizoma che copre il Cristo o i mantelli delle due figure della Madonna e di San Giovanni. Nel Crocefisso di Santa Croce, purtroppo notevolmente danneggiato dall’alluvione che colpì Firenze nel 1966, il corpo del Cristo appare molto più solido e decisamente più naturalistico. Sono scomparsi quei passaggi chiaroscurati troppo netti, e il corpo acquista una morbidezza più delicata e realistica. Da notare che in questa figura anche il perizoma acquista una trasparenza del tutto inedita nella pittura coeva, segno di una maturità nel controllare il colore che è decisamente originale.

Un particolare unifica però i due crocefissi, rivelandosi al contempo come una delle caratteristiche più tipiche dell’arte di Cimabue: l’inarcamento molto accentuato della figura del Cristo. Cimabue sfrutta quasi del tutto lo sportello laterale di destra, portando la figura del Cristo ad essere tangente con il bordo estremo della tavola. L’inarcamento della figura del Cristo era stato sfruttato dai pittori a lui precedenti per dare più drammaticità al momento rappresentato. Cimabue invece inarca il corpo di Cristo anche per dare più risalto volumetrico alla figura.

 

Madonna di Santa Trinità

Cimabue, Madonna di Santa Trinità, tra il 1260 e il 1280, tempera su tavola, 385 x 223 cm. Firenze, Galleria degli Uffizi

 

In questa tavola, che secondo la tradizione Cimabue realizzò per la chiesa di Santa Trinità di Firenze e oggi conservata agli Uffizi, troviamo alcuni dei maggiori traguardi raggiunti dal maestro fiorentino. Essa è stata realizzata tra il 1280 e il 1290, in una fase quindi molto matura del percorso artistico di Cimabue. Il tema della Maestà in trono è molto diffuso in tutta la pittura del Duecento italiano, ed è una delle composizioni che, nella sua immanente ieraticità, più risente della influenza dello stile bizantino, dal quale i pittori italiani cercano di distaccarsi. Ed anche questa tavola del Cimabue risente dei grandi precedenti bizantini, conservandone alcuni tratti stilistici, in particolare la visione frontale, l’uso molto esteso del colore oro, nonché le lumeggiature dorate che utilizza per la veste della Madonna. Ma la grande novità di questa pala d’altare sta soprattutto nella straordinaria costruzione spaziale, che viene impostata secondo una composizione del tutto inedita per il tempo. La Madonna siede su un trono che è quasi un’architettura, con il suo ritrarsi in una forma convessa, lasciando aprire al di sotto tre campate dal quale si affacciano quattro profeti. Nel suo complesso, questo trono così articolato sembra quasi la sezione di una cattedrale a tre navate, e non è quindi da escludere il significato simbolico del trono sul quale la Madonna siede e che quindi rappresenta la Chiesa. Nelle tre nicchie sottostanti al trono si affacciano quattro profeti: ai due lati abbiamo Geremia e Isaia (il primo è quello a destra guardando), mentre nella nicchia centrale vi sono Abramo e David che rappresentano la dinastia dalla quale è disceso Gesù. Ai lati della Madonna e del Bambino ci sono quattro angeli per parte, la cui collocazione spaziale appare decisamente inedita. Gli angeli non sono semplicemente uno sopra l’altro, ad occupare in verticale lo spazio ai lati del trono: ma appaiono come sfalsati in profondità. È questa la prima volta che ciò accade, con l’evidente intento di dare profondità spaziale all’intera costruzione spaziale dell’immagine. Del resto anche i due profeti Geremia e Isaia, nelle due nicchie in basso, con il loro alzare lo sguardo verso l’alto, già suggeriscono delle direzioni spaziali che sono di precisa tridimensionalità: essi non stanno “sotto” ma “davanti”. Quindi lo spazio non è pensato e realizzato sulla bidimensionalità della tavola, ma sulla scatola spaziale che visivamente avvertiamo oltre il piano della rappresentazione.  Il percorso della successiva arte italiana è così tracciato: in Giotto, e in tutti i suoi seguaci, il piano di rappresentazione diviene sempre più trasparente per aprirsi ad uno spazio virtuale, e tridimensionale, oltre il piano sul quale giace materialmente l’immagine.

 

Duccio di Boninsegna

 

Il pittore senese Duccio di Boninsegna, vissuto tra il 1255 e il 1319 circa, è stato il primo grande protagonista dell’eccezionale stagione pittorica di Siena tra fine XIII e metà del XIV sec. Il suo percorso artistico è per molti versi simile a quello di Cimabue, e spesso le sue opere, nel passato, sono state confuse con quelle del pittore fiorentino. A differenza di Cimabue, il distacco di Duccio dalla maniera bizantina nasce da una maggiore attenzione posta alla pittura gotica. Del resto la città di Siena, rispetto ad altre città italiane, per trovarsi sul percorso della via Francigena che univa Roma alla Francia, ha avuto intensi rapporti con questa nazione d’oltralpe, assumendone anche elementi culturali come una precisa influenza artistica sia nel campo architettonico sia in quello delle arti figurative. La produzione artistica di Duccio si concentra su un tema molto caro ai committenti del tempo: la «Maestà in trono». Con tale termine si indicano le pale d’altare raffiguranti la Madonna seduta su un trono con il bambino in braccio, attorniata da angeli o da santi. La sua prima opera nota attribuitagli è la «Madonna di Crevole» alla quale segue la «Madonna Rucellai» realizzata a Firenze intorno al 1285 per la chiesa di S. Maria Novella. In quest’opera la vicinanza allo stile di Cimabue è tale che molta parte della critica l’attribuiva a questo pittore, benché fonti documentarie attestino inequivocabilmente la paternità del pittore senese. La sua opera maggiore è la grande pala d’altare realizzata per il Duomo di Siena tra il 1308 e il 1311. In questa Maestà la Madonna è circondata sui due lati da una fitta schiera di santi, dando alla composizione un accentuato, quanto inedito, sviluppo orizzontale. L’opera, di grande complessità compositiva, dipinta su entrambe le facce, ebbe immediato successo e decretò la duratura fama del pittore senese.

 

Madonna Rucellai

Duccio di Buoninsegna, Madonna col Bambino in trono e angeli, detta Madonna Rucellai (1285; tempera su tavola e fondo oro, 450 x 290 cm; Firenze, Galleria degli Uffizi, in deposito dalla chiesa di Santa Maria Novella a Firenze, Comune di Firenze)

 

In questa grande pala d’altare troviamo già alcuni dei tratti stilistici che caratterizzano la pittura di Duccio e della successiva scuola senese che da egli nasce. La tavola è stata attribuita a Cimabue, almeno fino alla fine dell’Ottocento, ma la paternità di Duccio è sicuramente attestata dal contratto di commissione ritrovato nel XVIII secolo. Tuttavia l’equivoco è ben comprensibile, in quanto in questa pala d’altare le influenze di Cimabue sono fin troppo evidenti. Del resto è stato più volte ipotizzato che il giovane Duccio sia stato uno dei collaboratori di Cimabue, anche nel cantiere di Assisi, e proprio grazie al maestro fiorentino egli riuscì forse a ricevere nel 1285, a poco più di vent’anni, la commissione di questa grande pala dalla Compagnia dei Laudesi, destinata alla loro cappella in Santa Maria Novella. Intorno al 1570 la pala fu successivamente spostata nella Cappella dei Rucellai, una delle più potenti famiglie fiorentine del tempo, e da qui ha poi preso il nome di “Madonna Rucellai”. Rispetto alla pala di Santa Trinità di Cimabue, questa Maestà di Duccio ha una costruzione spaziale molto più incerta e labile. Il trono è posto in tralice, ma non dà profondità alla scatola prospettica. Del resto il suo aspetto appare decisamente poco solido, quasi che non abbia neppure la resistenza sufficiente a sostenere il peso della Madonna su di esso seduta. Il rapporto tra il trono e il piano d’appoggio è infine decisamente incongruo, a ulteriore dimostrazione dell’indifferenza di Duccio a risolvere il problema della costruzione tridimensionale della scena. Gli angeli, posti sui lati del trono, sono collocati in verticale perfetta: non hanno un piano reale d’appoggio ma si pongono uno sulla testa dell’altro. È fin troppo chiara la loro funzione solo simbolica, senza alcun reale rapporto dimensionale e spaziale con la scena nella quale entrano. Tuttavia la tavola ha caratteri stilistici che sono molto diversi dallo stile bizantino, stile dal quale, del resto, anche Duccio proviene per formazione. Il sottile bordino dorato che circonda il manto della Madonna crea una circonvoluzione con una curva molto elaborata. È questa una linea di chiara matrice gotica. Di gusto gotico è anche il cromatismo molto intenso della tavola, con colori squillanti e intensi. Il panno che copre la parte superiore del trono ha anch’esso una decorazione floreale di chiaro gusto gotico. In pratica Duccio mostra una sensibilità verso l’arte gotica, che sarà una costante di tutta la successiva arte senese della prima metà del Trecento. Anche l’umanizzazione del volto della Madonna, lontano dai caratteri ieratici della pittura bizantina, risente dell’influenza gotica. L’umanizzazione dei personaggi avviene con una ricerca di dolcezza che si ritrova più nell’arte francese che in quella italiana. In pratica Duccio introduce nella ricerca pittorica toscana quell’elemento gotico, che sarà un ulteriore elemento di modernità utile a superare le stanche formule dell’arte bizantina.

 

Maestà del Duomo di Siena

Duccio da Boninsegna, Maestà del Duomo di Siena, 1308-11,Museo dell’Opera del Duomo, Siena

 

La Maestà che Duccio realizzò per il Duomo di Siena tra il 1308 e il 1311, è sicuramente una delle opere più impegnative realizzate in campo artistico in quegli anni. Essa era una grande apparecchiatura, oggi purtroppo largamente smembrata, che si componeva oltre la tavola principale di m3,70×4,50, di una grande predella e di cuspidi oggi non più legate alla tavola principale e che risultano alcune disperse, altre conservate in musei stranieri, altre conservate nel Museo dell’Opera del Duomo nel quale è conservata anche la tavola principale. La fortuna di questa grande opera è attestata già dalla cronaca di quegli anni che sottolinea ed enfatizza la grande processione che si realizzò per trasportare l’enorme tavola dalla bottega di Duccio al Duomo. In questo si vuole soprattutto cogliere il carattere di grande valore civile, oltre che religioso, che la tavola rappresentò per il popolo senese di quegli anni. In pratica in opere del genere si celebrava non solo il gusto estetico di una città, ma soprattutto si affermava la propria grandezza in un simbolo che ne rendeva visibili i valori condivisi. Il programma iconografico è ampio ed articolato. Al centro della tavola è posto un grande trono marmoreo di stile cosmatesco, sul quale è seduta la Madonna con il Bambino in braccio. Sui due lati, disposti su tre file verticali, sono collocati numerosi santi ed angeli. Ne risulta una composizione decisamente affollata, ma con un ordine compositivo ben preciso. In prima fila, inginocchiati, sono collocati i quattro santi protettori di Siena: a sinistra sant’Ansano e san Savino, a destra san Crescenzio e san Vittore. La seconda fila è occupata da altri sei santi, tre per lato che, partendo da sinistra a destra, sono: a sinistra santa Caterina d’Alessandria, san Paolo, san Giovanni Evangelista, e, a destra, san Giovanni Battista, san Pietro e sant’Agnese. Questi santi occupano i posti più estremi della fila, mentre ai lati del trono, sempre nella seconda fila, si trovano due angeli per lato. Altri sedici angeli sono disposti nella terza fila superiore: sei su ciascun lato mentre altri quattro si collocano al di sopra dell’altare, con la testa che si poggia su un braccio. La scena ha uno sviluppo rettangolare, con un triangolo che si apre al centro per contenere il maggiore sviluppo della figura della Madonna, la cui imponenza è ovviamente dettata da quel criterio simbolico, anche chiamata “prospettiva gerarchica”, che vuole che le figure di maggiore importanza abbiano necessariamente una dimensione maggiore, indipendentemente dai corretti rapporti ottici che le figure hanno nello spazio della scena. Lo spazio rimanente tra il rettangolo principale e il triangolo superiore, è occupato da dieci figure di apostoli: altri due erano sicuramente raffigurati negli sportelli che componevano il coronamento superiore della tavola.

 

Giotto di Bondone

 

Giotto di Bondone nasce a Colle di Vespignano, vicino Firenze, nel 1267 circa e muore a Firenze nel 1337. Nei suoi settant’anni di vita Giotto è stato uno dei maggiori protagonisti della scena pittorica italiana, divenendo di fatto il punto di riferimento per la grande evoluzione artistica toscana che ha portato alla nascita del Rinascimento. Incerti sono i suoi inizi, e la cronologia delle sue prime opere appare ancora frutto di discussione e di revisione, soprattutto in riferimento al rapporto con l’arte di Pietro Cavallini. Questi due pittori sono entrambi attivi ad Assisi, alla fine del Duecento, e molto dubbia appare ancora la paternità degli affreschi che costituiscono soprattutto il grande ciclo di 28 affreschi dedicati alla vita di San Francesco nella Basilica Superiore. Dopo il periodo assisiate, Giotto fu a Roma, intorno al 1300 per partecipare ai lavori di rinnovamento artistico promosso da papa Bonifacio VIII per il Giubileo di quell’anno. Subito dopo si colloca la sua maggiore realizzazione, e quella a noi giunta in migliori condizioni di conservazione: gli affreschi per la cappella degli Scrovegni di Padova, realizzati tra il 1303 e il 1305. In seguito Giotto ritorna ad Assisi, realizzando diversi affreschi nella basilica inferiore, per le due cappelle di San Nicola e della Maddalena. Nei decenni successivi, l’attività di Giotto si intensificò ulteriormente. Diverse sono le realizzazioni su tavola quali il «polittico Stefaneschi» o la «pala di Ognissanti». Dopo il 1317 si collocano altri cicli di affreschi realizzati per due cappelle, Peruzzi e bardi, nella chiesa di Santa Croce a Firenze. Nel 1334 Giotto venne nominato architetto della cattedrale di Firenze, incarico che espletò progettando il campanile che porta oggi il suo nome. Alla morte di Giotto la costruzione del campanile era giunta alla prima cornice; fu in seguito continuata da Andrea Pisano, lo scultore che Giotto aveva chiamato a decorare il campanile con un ciclo di formelle esagonali, e terminata da Francesco Talenti e Neri di Fioravante nel 1357. L’attività di Giotto si estese in varie località italiane da Assisi a Roma, da Padova a Rimini, dove prima del 1313 eseguì il solenne Crocifisso del Tempio Malatestiano, quindi a Verona, a Napoli, dove lavorò per i sovrani angioini e a Milano, dove fu chiamato negli ultimi anni della sua vita dai Visconti. Questo suo successo testimonia l’importanza capitale che egli ebbe nel diffondere una nuova visione artistica, destinata a divenire la lingua pittorica nazionale dell’intera Italia. La portata rivoluzionaria della sua opera fu testimoniata qualche decennio dopo dal pittore Cennino Cennini, che nel suo «Libro dell’arte», scrisse che Giotto «rimutò l’arte del dipingere dal greco al latino». Con una sintetica formula divenuta celeberrima, il Cennini colse l’essenza dell’opera di Giotto: l’affrancarsi dalla pittura bizantina per riscoprire le radici naturalistiche dell’arte classica occidentale, vera fonte di ispirazione per il rinnovamento artistico di questi anni. Il suo stile ebbe diversi seguaci ed imitatori, ma ben pochi furono in realtà gli allievi che seppero seguirlo sulla strada da lui aperta. In effetti, nella seconda metà del Trecento il suo stile cadde quasi in oblio, per lasciar posto a suggestioni tardo gotiche di provenienza nordica. Ma la sua lezione non fu dimenticata, e rimase quale punto di riferimento, con un salto di un paio di generazioni, per quegli artisti fiorentini che all’aprirsi del nuovo secolo seppero dar vita alla grande stagione del Rinascimento italiano.

 

Madonna d’Ognissanti

Giotto, Madonna d’Ognissanti, 1310 ca., Galleria degli Uffizi, Firenze

 

In questa tavola realizzata da Giotto intorno al 1310, vediamo l’interpretazione di un grande tema della tradizione, e confrontando questa tavola a quelle di analogo soggetto di Cimabue o di Duccio, appare subito evidente la grande novità della pittura giottesca. La Madonna è priva di qualsiasi ieraticità e ci appare del tutto “umanizzata”. Il suo aspetto, il suo volto, la sua espressione, sono di una dolcezza tipicamente umana, senza alcuna astrazione di maniera. Ma ciò che appare di grande innovazione è soprattutto la costruzione del corpo della Madonna. Esso acquista una tridimensionalità volumetrica così evidente che sembra quasi una costruzione architettonica. Il mantello azzurro scuro che la ricopre non annulla i valori spaziali: lì dove si apre il busto della Madonna appare visivamente pieno e plausibile. Questo mantello scende dalla testa creando una linea verticale netta, ma poi si modella adagiandosi sulle gambe della Madonna: basta a Giotto una leggera scoloritura del colore del mantello per farci vedere pienamente il volume disegnato dalle due ginocchia della Madonna. Su questo piano orizzontale si pone la figura del Bambino che quindi trova un suo plausibile spazio di collocazione. Il trono marmoreo che accoglie la figura della Madonna ha una costruzione prospettiva molto articolata e corretta: da notare soprattutto il virtuosismo di controllare i due lati trasversali del trono con una struttura traforata che fa chiaramente vedere gli spazi posteriori nei quali appaiono di scorcio le figure di due santi. Le due schiere di santi ed angeli collocati ai lati del trono sono tutti collocati su un piano di appoggio unico e per guardare la Madonna sono correttamente rappresentati di profilo. In realtà, nella concezione medievale e soprattutto bizantina, la rappresentazione di profilo era stata totalmente abolita. Nella pittura di Giotto queste limitazioni scompaiono del tutto, ed egli riesce a controllare la spazialità dell’immagine anche nel corretto rapporto di direzioni di sguardi tra le figure che compaiono nella scena. In ossequio alla tradizione, anche Giotto alla fine utilizza il fondo dorato e una sproporzione “gerarchica” tra la figura della Madonna e le altre figure. Tuttavia si comprende chiaramente che queste sono appunto concessioni che egli fa alla tradizione, senza nulla togliere alla sua grande capacità di controllare visivamente tutti i corretti rapporti spaziali e visivi tra le figure.

 

Cappella degli Scrovegni

Cappella degli Scrovegni interno, Padova

 

La Cappella degli Scrovegni è una piccola chiesa interamente affrescata da Giotto a Padova. La decorazione fu realizzata tra il 1303 e il 1305, su commissione di Enrico Scrovegni, uno dei più rappresentativi e ricchi personaggi emergenti nella Padova di quegli anni. La cappella si presenta con una struttura architettonica molto semplice: è un’unica navata coperta da una volta a botte, con una piccola abside coperta da una volta a crociera. Il programma iconografico inserito da Giotto in questo spazio è basato essenzialmente sulle storie tratte dalle vite della Vergine e di Cristo. Sulla controfacciata (la parete interna del muro nel quale si apre il portale d’ingresso) è rappresentata, secondo la tradizione, il Giudizio Universale. Le Storie, suddivise in 39 scene, sono disposte su tre fasce sovrapposte. Una quarta fascia, posta al livello più basso, contiene le rappresentazioni allegoriche dei Vizi e delle Virtù. Il ciclo di affreschi di Padova viene cronologicamente dopo la realizzazione degli affreschi della Basilica Superiore di Assisi, ed il rapporto tra i due cicli è uno dei punti più controversi di tutta la storia dell’arte italiana. In realtà le discontinuità stilistiche tra i due cicli sono evidenti senza ombra di dubbio. Discontinuità che si giustificano se riteniamo che i due cicli sono riferiti a due distinte personalità artistiche, mentre si giustificano meno se i due cicli sono dello stesso artista. È questo uno dei motivi che fanno ritenere che forse il ciclo superiore di Assisi non è attribuibile a Giotto, anche se non si può escludere la sua presenza nel cantiere assisiate. In pratica la presenza di Giotto al cantiere di Assisi, e poi a quelli romani intorno al 1298-1300, gli ha permesso di acquisire quella padronanza della tridimensionalità che negli affreschi di Padova si manifesta con grande forza, ma ancora con qualche incertezza.

 

Giotto Di Bondone, Nascita di Maria, 1303 – 1305, Affresco, 219 x 235 cm, Cappella degli Scrovegni, Padova

 

 

In pratica tra i due cicli di affreschi muta in maniera decisa il rapporto tra figure e spazio. Negli affreschi di Assisi lo spazio è scandito con precisione soprattutto nella definizione dei piani di giacitura delle figure. Anche gli elementi architettonici entrano nelle rappresentazioni scandendo lo spazio in maniera pertinente: in pratica ogni figura ha il proprio spazio di pertinenza sia nello spazio visivo della rappresentazione sia nell’ipotetico spazio reale da cui parte la costruzione dell’immagine. Negli affreschi di Padova il rapporto tra figure e spazio non è sempre risolto in maniera convincente. Ed è qui che si nota l’incertezza di Giotto che non è un’evoluzione ma un passo indietro rispetto agli affreschi di Assisi. Lo si nota in particolare in alcuni affreschi quali la nascita della Vergine, nel quale si nota chiaramente che lo spazio interno dell’abitazione non può affatto corrispondere al volume della casa. La donna che si affaccia all’esterno rimane compressa tra lo spazio del letto e quello del muro nel quale si apre la porta: nella costruzione manca evidentemente dello “spazio”. Per il resto le analogie stilistiche tra la Cappella degli Scrovegni e gli affreschi della Basilica Superiore di Assisi sono tantissime. Un motivo in più per ritenere che in realtà il linguaggio di Giotto si sia formato proprio ad Assisi, a contatto con la scuola romana alla quale vanno probabilmente attribuiti gli affreschi di san Francesco. Lo stile di Giotto, che a Padova si organizza in maniera già compiuta, si caratterizza però per altre componenti, che di certo sono frutto del percorso individuale del maestro fiorentino. In particolare negli affreschi di Padova si nota una maggiore gravità dei corpi. In pratica i volumi sono molto più torniti grazie ad un uso sapientissimo del chiaroscuro, del quale Giotto è senz’altro il maestro assoluto. Ma non solo. Le figure hanno realmente “peso”, nel senso che non sembrano sospese in aria, ma poggiano realmente su un piano d’appoggio plausibile (pavimento, terreno o altro).

 

Giotto, Fuga in Egitto, dalle Storie di Cristo, 1303-5. Affresco, 2 x 1,85 m. Padova, Cappella degli Scrovegni.

 

Negli affreschi di Padova si nota poi una ricerca decisamente inedita, per il panorama artistico del tempo: la rappresentazione dello scorcio. Nella pittura medievale, e in quella bizantina in particolare, i volti sono sempre in posizione frontale o in parziale scorcio a tre quarti. Negli affreschi di Assisi si nota, come in altri esempi di pittura italiana del tempo, la volontà dei pittori di svincolarsi da questo obbligo di frontalità, e le figure e i volti vengono rappresentati anche di profilo o da angolazioni varie. Giotto va oltre. Non si limita al profilo, ma inclina i volti rappresentandoli per la prima volta da sotto in su. Lo si nota ad esempio nelle teste dei soldati romani addormentati al Sepolcro di Cristo. È questa la prima volta che ciò accade, anticipando una tecnica che avrà notevole fortuna in età rinascimentale.

 

Simone Martini

 

Pittore senese, vissuto tra il 1284 e 1344, Simone Martini è il pittore che più incarna lo spirito gotico della pittura senese nella prima metà del Trecento. Il distacco dalla maniera bizantina, nei pittori di stile gotico, si basa su alcune caratteristiche costanti: l’uso fondamentale della linea, soprattutto curva e sinuosa, per costruire l’immagine e l’apparato decorativo, l’uso di una grande vivacità cromatica, l’umanizzazione dei personaggi sacri a modo di uomini o dame di corte. Questi stessi parametri li ritroviamo tutti nella pittura di Simone Martini, pur se il suo linguaggio pittorico risente spesso dell’influenza giottesca. Sua prima opera nota è la «Maestà» che egli realizza ad affresco, nel 1315, nella Sala del Mappamondo del Palazzo Pubblico di Siena. In questo affresco è presente ovviamente l’influenza della grande pala di Duccio da Boninsegna, realizzata solo pochi anni prima, ma l’opera è già di decisa matrice gotica per la sua vivacità cromatica e per l’enfasi della linea. Opera anch’egli ad Assisi, dove realizza le «Storie di San Martino» nella Basilica Inferiore, e nel 1317 è a Napoli, ospite dei sovrani angioini, per i quali dipinge la tavola raffigurante «San Ludovico da Tolosa che incorona Roberto d’Angiò». La sua attività si svolge prevalentemente a Siena dove, tra l’altro, nel 1333 realizza uno dei suoi maggiori capolavori: la pala d’altare raffigurante l’Annunciazione, oggi conservata agli Uffizi di Firenze. Nel 1340, su invito di papa Benedetto XII, si trasferisce presso la corte papale di Avignone, dove vi rimase fino alla morte, avvenuta qualche anno dopo.

 

Annunciazione

Simone Martini, Annunciazione e due Santi, 1333, tempera su tavola, 265 x 305 cm (totale pannello). Firenze, Galleria degli Uffizi

 

L’Annunciazione che Simone Martini realizzò nel 1333 è sicuramente una delle più belle opere pittoriche di tutto il Trecento europeo. In essa si concentra tutta l’eleganza un po’ astratta dell’arte di Simone Martini. L’Annunciazione è uno dei soggetti più diffusi in assoluto di tutta l’arte di soggetto cristiano. La rappresentazione si basa essenzialmente sul racconto tratto dal vangelo di san Luca. L’arcangelo Gabriele si presenta alla Madonna per annunciarle la futura maternità. La Madonna, che in quel momento stava leggendo, accolse con stupore e un po’ di diffidenza l’annuncio dell’arcangelo, ma, dopo un istante di esitazione, accetta l’imminente nascita di Gesù. Il soggetto presenta alcuni elementi iconografici costanti: la presenza dei gigli, simbolo della verginità della Madonna, la colomba che simboleggia lo Spirito Santo, e il libro che, per tradizione, rivela la dimensione spirituale della Madonna. Questi elementi sono tutti presenti nella tavola di Simone Martini, ma qui l’artista inserisce qualcosa di più e di diverso rispetto ai canoni del tempo. L’Annunciazione è stato un soggetto molto diffuso nell’arte cristiana per una finalità teologica ben precisa: la Chiesa ha sempre voluto sottolineare con forza la natura divina di Gesù, e questa natura divina viene espressa con l’accettazione che egli non è nato come gli altri uomini. Egli nasce senza concepimento da una donna che rimane vergine. L’impossibilità “umana” di un simile evento manifesta, appunto, la natura divina di Gesù. La cosa non è di poco conto, perché uno dei grandi contrasti espressi contro i fondamenti della Chiesa è stato appunto il dubbio sulla natura divina o solo umana di Gesù. In questo caso, alla serietà e profondità del messaggio cristiano, Simone Martini aggiunge un’atmosfera da corte principesca che dà all’immagine un carattere quasi profano. L’artista ha scelto di rappresentare l’attimo della scena in cui la Madonna rimane perplessa e un po’ turbata dall’annuncio appena ricevuto. È una scelta abbastanza comune. Ma qui la Madonna ha un aspetto molto, ma molto, femminile e il suo atteggiamento assomiglia molto ad una gran dama che ascolta con fastidio la corte di un pretendente. In realtà mai, fino ad ora (e spesso anche dopo) si era vista una Madonna dai caratteri così poco eterei e viceversa molto terreni. È una Madonna molto elegante e seducente, tutto l’opposto rispetto all’asessuata immagine alla quale si era abituati. Lo spazio nella quale è collocata la scena è molto ristretto. Appena una linea divide il piano del pavimento da quello della parete di fondo. Questa limitatezza spaziale non mortifica l’immagine ma le dà, viceversa, un senso di maggiore intimità. La figura della Madonna è ricoperta, quasi per intero, da un mantello azzurro scuro senza alcun accenno di chiaroscuro o di lumeggiature. Tuttavia la figura non appare per nulla piatta o schiacciata, per la sapiente posizione nella quale viene collocata la figura della Madonna. Essa compie, infatti, una rotazione sul proprio asse in senso antiorario, mentre la testa si piega leggermente in senso contrario. Questa simultaneità di movimenti dà alla figura un aspetto naturalistico straordinario, facendo a meno di qualsiasi effetto di colore chiaroscurato, e al contempo dà alla figura della Madonna un’eleganza ancora più accentuata. La tavola è stata realizzata da Simone Martini in collaborazione con il cognato Lippo Memmi. Benché non sia documentata la parte avuta dai due, si ritiene che la tavola centrale sia stata realizzata da Simone Martini, mentre i due santi negli sportelli laterali siano stati realizzati da Lippo Memmi. L’opera fu realizzata per essere collocata sull’altare di Sant’Ansano nel Duomo di Siena. Nel 1799 fu trasferita negli Uffizi di Firenze dove è attualmente conservata.

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