L’arte ellenistica

Il contesto storico

Il termine “ellenismo” fu coniato nell’Ottocento dallo storico tedesco Johann Gustav Droysen, per indicare quel periodo storico che va dalla morte di Alessandro Magno alla conquista romana dell’Egitto. La matrice di fondo del periodo, secondo Droysen, è l’integrarsi della cultura greca con quella orientale. In buona parte è una visione storica corretta, intesa tuttavia non come un mescolarsi di due culture diverse, ma soprattutto come diffusione della civiltà greca ben oltre i confini della Grecia e delle sue colonie, in particolare nelle aree orientali.

Il grande protagonista della diffusione della cultura greca fu Alessandro Magno. Figlio di Filippo il Macedone, alla morte di questi avvenuta nel 336 a.C., Alessandro iniziò una strepitosa campagna di conquista che lo portò, nel giro di pochi anni, a costituire un impero immenso, che comprendeva, oltre la penisola greca, l’Egitto, la fascia mediorientale della Palestina e della Fenicia, l’attuale Turchia, la Tracia (attuale Romania) e tutto il vastissimo impero persiano che andava dall’Armenia fino ai confini con l’India. Si apprestava a completare questo vasto impero con la conquista della penisola araba, ma improvvisamente morì, a soli 33 anni, nel 323 a.C. L’unitarietà del suo impero non sopravvisse alla sua morte, e si frantumò in tanti regni (definiti, appunto, ellenistici) poi progressivamente assorbiti dall’impero romano. Roma completò queste annessioni con la conquista dell’Egitto, avvenuta nel 31 a.C., e da questo momento non si parla più di arte e di cultura ellenistica ma di arte e di cultura romana, anche se, come in seguito vedremo, di fatto non vi fu alcuna soluzione di continuità: in pratica, soprattutto nel campo delle arti figurative, non vi fu alcun cambiamento stilistico, ma solo un cambio di nome, dato che, dal 31 a.C. in poi, tutto il mondo antico è ormai sotto la dominazione politica di Roma.

Grandi centri dell’arte ellenistica divennero città e centri al di fuori della Grecia, in particolare Alessandria d’Egitto, Rodi e Pergamo. Ciò ci fa immediatamente capire che ormai l’arte greca è divenuta un fenomeno “internazionale”. Non è più l’espressione culturale di un popolo (quello greco) legato da comuni radici linguistiche, religiose e filosofiche, ma uno stile universale che può essere utilizzato da tutti. In pratica, nel periodo dell’ellenismo troviamo l’arte greca non solo il Grecia, ma in tutto il bacino orientale del Mediterraneo, nonché nell’Asia mediorientale e centrale.

Ciò produce ovviamente una contaminazione con altri linguaggi e altre visioni estetiche, per cui l’arte ellenistica appare come un fenomeno molto diversificato, non sempre riconducibile ad una visione artistica unitaria. Non è un caso che, parlando di arte ellenistica, questa venga aggettivata in base al luogo d’origine: abbiamo così l’ellenismo alessandrino (da Alessandria d’Egitto), l’ellenismo rodiano (dall’isola di Rodi nel Peloponneso), l’ellenismo pergameneo (da Pergamo), l’ellenismo attico (ovviamente da Atene, che rimane un vivo centro artistico anche in questo periodo).

Il giudizio storico su questo periodo è stato sempre accompagnato da una valutazione tendenzialmente negativa, quasi che l’ellenismo sia stato solo un frutto decadente e senescente dell’arte classica. In pratica, e questo giudizio lo ritroveremo anche applicato ad epoche storiche successive, ogni qualvolta una civiltà raggiunge alte vette, il periodo storico che segue viene sempre visto come un’epoca di decadenza. Ciò non è ovviamente vero, e l’ellenismo non è un periodo di decadenza: è semplicemente diverso rispetto all’arte greca, perché la civiltà complessiva è ormai diversa nel nuovo contesto storico.

Lo scarto di civiltà riguarda molti parametri, ma per ciò che attiene l’arte la principale differenza che si coglie è il maggior cosmopolitismo. L’arte non è più il frutto di un’unica visione culturale, ma è la sintesi di più tendenze culturali maturate, nel corso dei secoli, tra l’Egitto e l’Asia minore. Questa visione sincretica della cultura, diviene poi eredità dell’arte romana almeno per tutti i primi due secoli della nuova era cristiana.

Differenze tra arte classica ed ellenistica

L’arte ellenistica deriva, in quanto ne è la prosecuzione, dall’arte greca, ma rispetto a questa si presenta con notevoli differenze. In particolare possiamo cogliere il maggior contrasto nel diverso senso della misura. Nell’arte classica tutto appare misurato, ordinato, proporzionato, in equilibrio. Nell’arte ellenistica questa misura si frantuma, e tutto tende a diventare se non smisurato, di certo spettacolare. In pratica l’arte non cerca semplicemente la perfezione, ma tende a stupire e meravigliare. Non cerca semplicemente il bello, ma vuole ottenere la spettacolarità.

Per cui, se dovessimo usare pochi termini per definirla, dovremmo dire che l’arte ellenistica è scenografica ed espressionistica. Scenografica, in quanto vuole “fare scena”, con opere che tendono ad impressionare per il virtuosismo, anche tecnico, con cui sono realizzate, nonché per la magniloquenza della loro grandiosa dimensione. Espressionistica perché tende ad accentuare i caratteri espressivi delle figure, distaccandosi da quel sereno distacco psicologico che avevano le opere d’arte del periodo classico. In pratica gli artisti di questo periodo mettono a frutto soprattutto quelle tendenze che abbiamo visto comparire già nel periodo classico con Skopas, Prassitele e Lisippo: la ricerca del pathos, quale espressione di intensi sentimenti e forti passioni interiori. In pratica l’arte non ha come finalità la semplice contemplazione del bello, ma vuole commuovere.

Ciò va di pari passo con un progressivo abbandono della visione idealistica dell’arte, a favore di una visione più realistica. In pratica, non si cerca più di raffigurare sempre e soltanto il prototipo dell’uomo ideale, modello valido per ogni situazione che fa dell’arte la celebrazione per eccellenza della figura dell’eroe, ma viene rappresenta la realtà per quello che è. Si passa dall’universale al particolare, dal semplice al complesso, dal modello ideale al caso reale, e qualche volta anche dal bello al brutto. Sì, perché con l’ellenismo troviamo per la prima volta rappresentate anche persone esteticamente non gradevoli, non più solo giovani atleti al massimo grado della loro potenza. È questa una tendenza che possiamo considerare come di ricerca del tipico, o del curioso, ossia di quei caratteri della realtà che ci danno la sensazione della multiforme possibilità che ha appunto la realtà di manifestarsi.

L’ellenismo alessandrino

Alessandria d’Egitto fu fondata da Alessandro Magno nel 331 a.C., quale nuova capitale dell’Egitto, alle foci del Nilo. La città sorse in forme imponenti, con larghissime strade e grandiosi edifici. Era sede di un museo, nonché di una famosa biblioteca che, secondo la leggenda, conteneva tutta la produzione scientifica e letteraria del mondo antico. Biblioteca che conobbe diverse vicissitudini, che portarono alla distruzione di tutta la sua collezione di testi. Nel 48 a.C. durante l’assedio di Cesare alla città, la biblioteca fu incendiata una prima volta. Ricostruita da Antonio, che la arricchì di 200.000 volumi fatti venire da Pergamo, nel 200 d.C. i cristiani dispersero per sempre i volumi e distrussero il Museo.

Ma la presenza di questa famosissima biblioteca ci fornisce un indizio molto preciso del carattere cosmopolita di questa città. Alessandria, nel periodo ellenistico nonché nei primi secoli dell’impero romano, è il vero centro del mondo antico. In essa convergono tutte le culture e le razze e, mai come in questo momento, essa è la somma e la sintesi delle molteplici civiltà che il mondo antico aveva prodotto: da quella egiziana a quella greca, da quella persiana a quella fenicia, senza dimenticare gli ebrei, i primi cristiani, gli zoroastriani nonché le influenze delle più lontane civiltà celtiche e indoeuropee. Davvero un crogiuolo sorprendente di culture e civiltà, che sicuramente resero Alessandria una città quanto mai affascinante ed effervescente.

In questo contesto, anche l’arte finì per essere un mosaico di tendenze diverse, accogliendo influenze sia rodie che pergamenee, nonché l’eredità dell’arte greca dei secoli precedenti. L’arte alessandrina produsse inoltre un rinnovamento intenso dei repertori figurativi, introducendo nuovi generi prima poco praticati. Innanzitutto il genere pittoresco, inteso in questo caso soprattutto come ricerca del tipico e del curioso nella vita di tutti i giorni, quasi a comporre un campionario di tutte le tipicità umane in circolazione. Molto praticato fu anche il nudo femminile, che nell’arte classica è del tutto assente. Tipico dell’arte alessandrina fu anche il rinnovamento dell’iconografia sacra e mitologica, nella quale compare anche la personificazione, sotto l’aspetto di un vecchio barbuto, del fiume Nilo. In ogni caso l’arte alessandrina si distingueva sempre per un virtuosismo tecnico notevole, che portava a curare con maniacale interesse anche il più piccolo particolare.

L’ellenismo pergameneo

Pergamo era una piccola città, le cui prima notizie risalgono al IV secolo a.C. Alla morte di Alessandro Magno, uno dei suoi generali, Lisimaco, che si divise con gli altri l’impero, la scelse come luogo dove conservare il suo tesoro, affidandone la custodia a Filetero. Ma quando nel 283 a.C. Lisimaco si scontrò con Seleuco, Filetero parteggiò per quest’ultimo, il quale, uscito vittorioso, lo ricompensò affidandogli il regno di Pergamo.

Iniziò quindi la dinastia degli Attali, dal nome del padre di Filetero, che si estinse con Attalo III Filometore nel 133 a.C. Questi, morendo, lasciò il regno in eredità a Roma, con la quale i pergamenei si erano alleati un secolo prima. Pergamo divenne capitale della provincia romana d’Asia, e continuò a fiorire per due secoli. Fu una delle prime sedi cristiane, e una delle sette chiese d’Asia. Il suo nome attuale è Berghama, ma la vecchia città conobbe un profondo oblio, nel corso del periodo bizantino e ottomano, tanto che il suo sito archeologico è tornato alla luce solo alla fine dell’Ottocento, grazie a degli scavi che una compagnia tedesca stava facendo in Turchia per costruire una linea ferroviaria. Nell’occasione fu notevole il rinvenimento di materiali archeologici che, grazie agli accordi diplomatici dell’epoca tra turchi e tedeschi, sono oggi conservati nel museo di Berlino.

L’origine mitologica della città si faceva risalire a Telefo, figlio di Ercole, il cui mito ha sicuramente influenzato quello della nascita di Roma, come di seguito si dirà. Ma da Pergamo i romani non presero solo i miti di fondazione, ma anche molte caratteristiche della loro arte. In particolare l’uso dell’arte per celebrare la propria storia. Infatti l’ellenismo pergameneo si caratterizza soprattutto per questo uso inedito dell’arte, nell’ambito della cultura ellenistica: l’arte non per una mera ricerca estetica, ma finalizzata a ricordare ai posteri la storia che si andava compiendo in quegli anni. La cronaca veniva immediatamente fissata nel suo valore storico attraverso la rappresentazione artistica.

Ma nell’arte pergamenea troviamo anche altre caratteristiche comuni alle altre tendenze ellenistiche: innanzitutto il pathos e l’effetto scenografico. Le immagini tendono sempre ad un effetto forte: devono commuovere ma devono anche stupire. Non a caso nell’arte pergamenea troviamo una ricerca di complessità che ha portato spesso a definire questa arte come “barocca”, intendendo con questo termine ovviamente il moltiplicarsi e l’intrecciarsi di molteplici motivi con un effetto altamente spettacolare.

L’ellenismo rodiano

Altro grande centro di produzione dell’arte ellenistica fu l’isola di Rodi nel Peloponneso. Qui sorse, ad esempio, il grande Colosso, alto circa 34 metri, considerato nell’antichità una della setta meraviglie del mondo. Questo colosso fu distrutto da un terremoto intorno al 226 a.C. In questa isola operarono diversi scultori della scuola di Lisippo, e l’arte che qui si sviluppò può essere considerata di intonazione più classicheggiante che negli altri centri di produzione ellenistica. In tale ottica può essere considerata una della più famose opere di produzione rodiana, quale la “Nike di Samotracia”, tradizionalmente attribuita allo scultore Pythokritos. In questo caso si avverte ancora tutta la tendenza idealistica ereditata della grande tradizione classica. Non vi è ricerca del tipico o del singolare, ma la figura esprime tutta l’eleganza di quella bellezza ideale senza tempo che era la grande caratteristica dell’arte greca.

Non sono assenti tuttavia elementi derivanti dall’arte pergamenea, soprattutto nel grande complesso del Laocoonte, dove la complessità scenografica e la componente del pathos, sono sicuramente riconducibili all’influenza esercitata da Pergamo sulla cultura di Rodi.

Altare di Pergamo

Il grande altare di Zeus a Pergamo fu eretto tra il 183 e 174 a. C. Esso consisteva di un ampio recinto quadrilatero ed era contornato all’esterno da un colonnato, alto m. 4, il quale si protendeva in due avancorpi ad U, al cui centro era posta la monumentale scala d’accesso. Questa ampia scala faceva sì che il colonnato era posto alla sommità di un alto basamento, in parte modellato ad alto rilievo, in parte liscio.

Questo tempio, in base agli scavi archeologici tedeschi compiuti alla fine dell’Ottocento, è stato ricostruito, nelle parti superstiti, all’interno del Pergamonmuseum di Berlino.

L’insieme architettonico, se paragonato ai templi del periodo classico, appare decisamente più scenografico. L’insieme è molto più maestoso, e al contempo appare più ricca e movimentata anche la decorazione scultorea, non posta negli alti timpani ma quasi ad altezza degli osservatori.

Particolare della Gigantomachia sul basamento dell’Altare di Pergamo

La parte del basamento modellata ad alto rilievo componeva un fregio lungo 110 metri e rappresentava la Gigantomachia, ovvero la lotta tra i giganti e gli dei dell’Olimpo. In questo lungo fregio è possibile ammirare tutto lo sforzo di ricchezza compositiva attuata dagli ignoti scultori. Le figure si intrecciano tra loro con motivi sempre curvi ed arcuati, così da esprimere mai stasi ma sempre tensione e movimento. I volti, dalle espressioni sempre di intensa partecipazione psicologica e di sofferenza, accentuano la componente pathos di queste raffigurazioni. Il modellato è poi molto ricco di effetti pittorici, soprattutto nelle pieghe delle vesti, il che, sommandosi alla complessità generale, dà a queste sculture un aspetto che si può quasi definire barocco.

Particolare del fregio di Telefo all’interno dell’Altare di Pergamo

All’interno del recinto sorgeva la cella, che a sua volta era coronata da un alto fregio a bassorilievo che aveva come tema la storia di Telefo. Questo personaggio mitologico era considerato il fondatore della città di Pergamo. Il suo mito ci racconta che egli era figlio di Ercole e Auge, ma il nonno, avuta una profezia che questo nipote lo avrebbe ucciso, diede incarico ad un cacciatore di ammazzarlo. Il cacciatore, tuttavia, non ebbe il coraggio di farlo, e lo abbandonò su una montagna dove fu allevato da una cerva. Dal mito di Telefo si ipotizza che i romani si siano ispirati per costruire il mito di Romolo e Remo, allevati da una lupa. In seguito Telefo visse molte vicende, tra cui la partecipazione alla guerra di Troia, vicende che furono narrate su questo fregio, con una tecnica che può essere definita “stile continuo”. In pratica il fregio non ha pause o interruzioni, ma si presenta come un unico testo narrativo, pur rappresentando momenti ed episodi temporalmente distinti. Questo tipo di rappresentazione viene anche definita sincretica, perché riduce ad un’unica apparente unità di tempo, una serie di episodi che hanno invece successione cronologica. La narrazione in base allo “stile continuo” verrà ereditato dai romani che ne faranno largo uso nei loro monumenti autocelebrativi, quali le colonne istoriate.

I galati morenti

Galata morente, II sec. a.C., copia romana, marmo, Musei Capitolini, Roma

Ipotesi ricostruttiva del monumento ai galati

Le sculture dei galati morenti costituiscono una delle opere più originali della corrente patetico-scenografica dell’arte pergamenea. Il complesso monumentale, di cui nel disegno si vede un’ipotesi di ricostruzione complessiva, è oggi disperso e rimangono solo alcune parti, non originali, ma copie del periodo romano. I galati (il termine in greco significa “barbari”) erano popolazioni di origine celtica che emigrarono in Asia minore. I galati, intorno al 240 a.C., attaccarono la città di Pergamo, ma questa uscì vittoriosa dallo scontro, e celebrarono la vittoria con alcune opere d’arte, come questo complesso monumentale che stiamo esaminando.

Galata suicida, II sec. a.C., copia romana, marmo, Musei Nazionale Romano, Roma

Il perno centrale del monumento era rappresentato dal gruppo del galata che si suicida dopo aver ammazzato la moglie. Il gruppo è tutto incentrato sul contrasto tra l’elemento lineare, costituito dal galata che si suicida infilandosi la spada nel torace dall’alto, e le linee curve della moglie già deceduta. Il contrasto di linee accentua tutto il pathos che si avverte nella scena: il dramma tra il corpo della donna che si piega in assenza di una vita che è appena sfuggita, e la salda terminazione dell’uomo, diritto come è retta la sua volontà che non conosce esitazione nel togliersi la vita piuttosto che cadere prigioniero del nemico.

L’altro guerriero, ferito e morente, è anche lui rappresentato nell’ultimo istante di vita. La sua posizione è “quasi” distesa, ma proprio in quel “quasi” si avverte tutta la drammaticità di chi sa di trovarsi a quel traguardo finale dal quale non si può far ritorno. Il complesso, nella sua complessità, aveva di certo un valore figurativo altamente scenografico, ma il suo fine non è solo di stupire, ma anche di commuovere. In questo celebrare il valore eroico dei vinti, non solo si rendeva loro onore, ma si evidenziava al contempo la forza del popolo pergameneo, capace di sconfiggere un nemico di sì grande valore.

Laocoonte

Agesandros, Athenodoros e Polydoros, Laocoonte, II sec. a.C., copia romana, marmo, alt m. 2,42, Musei Vaticani, Roma

Il gruppo del Laocoonte fu ritrovato a Roma agli inizi del Cinquecento, ridotto in più frammenti e incompleto. Secondo le concezioni estetiche del tempo, il gruppo fu oggetto di un pesante restauro di ripristino: fu praticamente ricomposto reintegrando quasi tutte le parti mancanti con parti scolpite ex novo, in particolare quelle, quali il busto del padre, che risultavano indispensabili per ridare unità al complesso monumentale. Laocoonte, sacerdote troiano, cercò invano di convincere i suoi concittadini a non far entrare nella città di Troia il cavallo lasciato dai greci che avevano sciolto l’assedio alla città. Atena, che parteggiava per i greci, per evitare che il suo consiglio trovasse ascolto, fece uscire dal mare due serpenti marini i quali, nelle loro spire, soffocarono Laocoonte insieme ai suoi due figli.

Il gruppo scultoreo, attribuito ad Agesandros e ai suoi figli Athenodoros e Polydoros, appartiene alla produzione rodia, ma il suo stile è molto vicino alla scuola pergamenea. Il modellato risulta molto raffinato, e le figure hanno una impostazione, sia nella struttura fisica che nella posizione assunta, molto idealizzata. Tuttavia la complessità scenografica del monumento, nonché il contenuto di forte pathos, sono elementi che derivano sicuramente da una precisa influenza dello stile pergameneo su quello di Rodi. Ciò che infatti più sorprende di questo monumento, molto ammirato sia in età rinascimentale che in età neoclassica, è soprattutto la grande padronanza tecnica dello scultore, nel riuscire a controllare in maniera unitaria le numerose linee compositive, che danno al gruppo scultoreo una forte dinamicità, rispettando sia le esigenze formali che quelle narrative.

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