Giotto di Bondone

Giotto di Bondone nasce a Colle di Vespignano, vicino Firenze, nel 1267 circa e muore a Firenze nel 1337.

Nei suoi settant’anni di vita Giotto è stato uno dei maggiori protagonisti della scena pittorica italiana, divenendo di fatto il punto di riferimento per la grande evoluzione artistica toscana che ha portato alla nascita del Rinascimento.

Incerti sono i suoi inizi, e la cronologia delle sue prime opere appare ancora frutto di discussione e di revisione, soprattutto in riferimento al rapporto con l’arte di Pietro Cavallini. Questi due pittori sono entrambi attivi ad Assisi, alla fine del Duecento, e molto dubbia appare ancora la paternità degli affreschi che costituiscono soprattutto il grande ciclo di 28 affreschi dedicati alla vita di San Francesco nella Basilica Superiore.

Dopo il periodo assisiate, Giotto fu a Roma, intorno al 1300 per partecipare ai lavori di rinnovamento artistico promosso da papa Bonifacio VIII per il Giubileo di quell’anno. Subito dopo si colloca la sua maggiore realizzazione, e quella a noi giunta in migliori condizioni di conservazione: gli affreschi per la cappella degli Scrovegni di Padova, realizzati tra il 1303 e il 1305.

In seguito Giotto ritorna ad Assisi, realizzando diversi affreschi nella basilica inferiore, per le due cappelle di San Nicola e della Maddalena. Nei decenni successivi, l’attività di Giotto si intensificò ulteriormente. Diverse sono le realizzazioni su tavola quali il «polittico Stefaneschi» o la «pala di Ognissanti». Dopo il 1317 si collocano altri cicli di affreschi realizzati per due cappelle, Peruzzi e bardi, nella chiesa di Santa Croce a Firenze.

Nel 1334 Giotto venne nominato architetto della cattedrale di Firenze, incarico che espletò progettando il campanile che porta oggi il suo nome. Alla morte di Giotto la costruzione del campanile era giunta alla prima cornice; fu in seguito continuata da Andrea Pisano, lo scultore che Giotto aveva chiamato a decorare il campanile con un ciclo di formelle esagonali, e terminata da Francesco Talenti e Neri di Fioravante nel 1357.

L’attività di Giotto si estese in varie località italiane da Assisi a Roma, da Padova a Rimini, dove prima del 1313 eseguì il solenne Crocifisso del Tempio Malatestiano, quindi a Verona, a Napoli, dove lavorò per i sovrani angioini e a Milano, dove fu chiamato negli ultimi anni della sua vita dai Visconti. Questo suo successo testimonia l’importanza capitale che egli ebbe nel diffondere una nuova visione artistica, destinata a divenire la lingua pittorica nazionale dell’intera Italia. La portata rivoluzionaria della sua opera fu testimoniata qualche decennio dopo dal pittore Cennino Cennini, che nel suo «Libro dell’arte», scrisse che Giotto «rimutò l’arte del dipingere dal greco al latino». Con una sintetica formula divenuta celeberrima, il Cennini colse l’essenza dell’opera di Giotto: l’affrancarsi dalla pittura bizantina per riscoprire le radici naturalistiche dell’arte classica occidentale, vera fonte di ispirazione per il rinnovamento artistico di questi anni.

Il suo stile ebbe diversi seguaci ed imitatori, ma ben pochi furono in realtà gli allievi che seppero seguirlo sulla strada da lui aperta. In effetti, nella seconda metà del Trecento il suo stile cadde quasi in oblio, per lasciar posto a suggestioni tardo gotiche di provenienza nordica. Ma la sua lezione non fu dimenticata, e rimase quale punto di riferimento, con un salto di un paio di generazioni, per quegli artisti fiorentini che all’aprirsi del nuovo secolo seppero dar vita alla grande stagione del Rinascimento italiano.

Madonna d’Ognissanti

Giotto, Madonna d’Ognissanti, 1310 ca., Galleria degli Uffizi, Firenze

In questa tavola realizzata da Giotto intorno al 1310, vediamo l’interpretazione di un grande tema della tradizione, e confrontando questa tavola a quelle di analogo soggetto di Cimabue o di Duccio, appare subito evidente la grande novità della pittura giottesca. La Madonna è priva di qualsiasi ieraticità e ci appare del tutto “umanizzata”. Il suo aspetto, il suo volto, la sua espressione, sono di una dolcezza tipicamente umana, senza alcuna astrazione di maniera. Ma ciò che appare di grande innovazione è soprattutto la costruzione del corpo della Madonna. Esso acquista una tridimensionalità volumetrica così evidente che sembra quasi una costruzione architettonica. Il mantello azzurro scuro che la ricopre non annulla i valori spaziali: lì dove si apre il busto della Madonna appare visivamente pieno e plausibile. Questo mantello scende dalla testa creando una linea verticale netta, ma poi si modella adagiandosi sulle gambe della Madonna: basta a Giotto una leggera scoloritura del colore del mantello per farci vedere pienamente il volume disegnato dalle due ginocchia della Madonna. Su questo piano orizzontale si pone la figura del Bambino che quindi trova un suo plausibile spazio di collocazione.

Il trono marmoreo che accoglie la figura della Madonna ha una costruzione prospettiva molto articolata e corretta: da notare soprattutto il virtuosismo di controllare i due lati trasversali del trono con una struttura traforata che fa chiaramente vedere gli spazi posteriori nei quali appaiono di scorcio le figure di due santi. Le due schiere di santi ed angeli collocati ai lati del trono sono tutti collocati su un piano di appoggio unico e per guardare la Madonna sono correttamente rappresentati di profilo. In realtà, nella concezione medievale e soprattutto bizantina, la rappresentazione di profilo era stata totalmente abolita. Nella pittura di Giotto queste limitazioni scompaiono del tutto, ed egli riesce a controllare la spazialità dell’immagine anche nel corretto rapporto di direzioni di sguardi tra le figure che compaiono nella scena.

In ossequio alla tradizione, anche Giotto alla fine utilizza il fondo dorato e una sproporzione “gerarchica” tra la figura della Madonna e le altre figure. Tuttavia si comprende chiaramente che queste sono appunto concessioni che egli fa alla tradizione, senza nulla togliere alla sua grande capacità di controllare visivamente tutti i corretti rapporti spaziali e visivi tra le figure.

Cappella degli Scrovegni

La Cappella degli Scrovegni è una piccola chiesa interamente affrescata da Giotto a Padova.

La decorazione fu realizzata tra il 1303 e il 1305, su commissione di Enrico Scrovegni, uno dei più rappresentativi e ricchi personaggi emergenti nella Padova di quegli anni.

La cappella si presenta con una struttura architettonica molto semplice: è un’unica navata coperta da una volta a botte, con una piccola abside coperta da una volta a crociera. Il programma iconografico inserito da Giotto in questo spazio è basato essenzialmente sulle storie tratte dalle vite della Vergine e di Cristo. Sulla controfacciata (la parete interna del muro nel quale si apre il portale d’ingresso) è rappresentata, secondo la tradizione, il Giudizio Universale. Le Storie, suddivise in 39 scene, sono disposte su tre fasce sovrapposte. Una quarta fascia, posta al livello più basso, contiene le rappresentazioni allegoriche dei Vizi e delle Virtù.

Il ciclo di affreschi di Padova viene cronologicamente dopo la realizzazione degli affreschi della Basilica Superiore di Assisi, ed il rapporto tra i due cicli è uno dei punti più controversi di tutta la storia dell’arte italiana. In realtà le discontinuità stilistiche tra i due cicli sono evidenti senza ombra di dubbio. Discontinuità che si giustificano se riteniamo che i due cicli sono riferiti a due distinte personalità artistiche, mentre si giustificano meno se i due cicli sono dello stesso artista. È questo uno dei motivi che fanno ritenere che forse il ciclo superiore di Assisi non è attribuibile a Giotto, anche se non si può escludere la sua presenza nel cantiere assisiate. In pratica la presenza di Giotto al cantiere di Assisi, e poi a quelli romani intorno al 1298-1300, gli ha permesso di acquisire quella padronanza della tridimensionalità che negli affreschi di Padova si manifesta con grande forza, ma ancora con qualche incertezza.

In pratica tra i due cicli di affreschi muta in maniera decisa il rapporto tra figure e spazio. Negli affreschi di Assisi lo spazio è scandito con precisione soprattutto nella definizione dei piani di giacitura delle figure. Anche gli elementi architettonici entrano nelle rappresentazioni scandendo lo spazio in maniera pertinente: in pratica ogni figura ha il proprio spazio di pertinenza sia nello spazio visivo della rappresentazione sia nell’ipotetico spazio reale da cui parte la costruzione dell’immagine. Negli affreschi di Padova il rapporto tra figure e spazio non è sempre risolto in maniera convincente. Ed è qui che si nota l’incertezza di Giotto che non è un’evoluzione ma un passo indietro rispetto agli affreschi di Assisi. Lo si nota in particolare in alcuni affreschi quali la nascita della Vergine, nel quale si nota chiaramente che lo spazio interno dell’abitazione non può affatto corrispondere al volume della casa. La donna che si affaccia all’esterno rimane compressa tra lo spazio del letto e quello del muro nel quale si apre la porta: nella costruzione manca evidentemente dello “spazio”.

Per il resto le analogie stilistiche tra la Cappella degli Scrovegni e gli affreschi della Basilica Superiore di Assisi sono tantissime. Un motivo in più per ritenere che in realtà il linguaggio di Giotto si sia formato proprio ad Assisi, a contatto con la scuola romana alla quale vanno probabilmente attribuiti gli affreschi di san Francesco.

Lo stile di Giotto, che a Padova si organizza in maniera già compiuta, si caratterizza però per altre componenti, che di certo sono frutto del percorso individuale del maestro fiorentino. In particolare negli affreschi di Padova si nota una maggiore gravità dei corpi. In pratica i volumi sono molto più torniti grazie ad un uso sapientissimo del chiaroscuro, del quale Giotto è senz’altro il maestro assoluto. Ma non solo. Le figure hanno realmente “peso”, nel senso che non sembrano sospese in aria, ma poggiano realmente su un piano d’appoggio plausibile (pavimento, terreno o altro).

Negli affreschi di Padova si nota poi una ricerca decisamente inedita, per il panorama artistico del tempo: la rappresentazione dello scorcio. Nella pittura medievale, e in quella bizantina in particolare, i volti sono sempre in posizione frontale o in parziale scorcio a tre quarti. Negli affreschi di Assisi si nota, come in altri esempi di pittura italiana del tempo, la volontà dei pittori di svincolarsi da questo obbligo di frontalità, e le figure e i volti vengono rappresentati anche di profilo o da angolazioni varie. Giotto va oltre. Non si limita al profilo, ma inclina i volti rappresentandoli per la prima volta da sotto in su. Lo si nota ad esempio nelle teste dei soldati romani addormentati al Sepolcro di Cristo. È questa la prima volta che ciò accade, anticipando una tecnica che avrà notevole fortuna in età rinascimentale.

You may also like...