L’arte romana

L’arte proto italica e etrusca

La penisola italiana aveva conosciuto, dall’età della pietra all’età del ferro, uno scacchiere di culture diversificate, che però non raggiunsero mai i caratteri elevati delle civiltà che, negli stessi secoli, si andavano sviluppando in Grecia ed in Oriente. Queste culture (che con termine generico vengono definite, in età protostorica, appenniniche, per essere poi distinte, nell’età del ferro, in culture villanoviane, osco-sabelliche, laziali, umbre, campane, sannitiche, picene e apule) conservano nell’arte un carattere comune: una tendenza alla geometrica semplificazione, che portavano i manufatti artistici a risultati di vigorosa ed intensa espressione, pur se di sommaria esecuzione.

Sono prodotti di culture a scarsa urbanizzazione, prive di notevoli traffici commerciali, che le pongano in contatto con civiltà più evolute. Tra di esse, l’unica cultura che sviluppò maggiormente la vocazione al commercio e ai traffici, fu quella etrusca. Questo popolo, sulle cui origini molto si è discusso, sviluppò una propria identità culturale nei territori dell’Italia centrale compresi tra i fiumi Arno e Tevere. Ebbe uno sviluppo temporale compreso tra il 700 e il 100 a.C., coincidente con il periodo monarchico e repubblicano di Roma. E difatti, per i primi secoli della storia romana, l’arte prodotta a Roma, rimase sostanzialmente etrusca, esaurendosi solo quando Roma fu conquistata, a partire dal II secolo a.C., dall’arte greca ed ellenistica.

Le conoscenze, ancora lacunose sulla cultura etrusca, hanno di fatto condizionato anche la nostra comprensione del fenomeno artistico. Nell’arte etrusca, infatti, convivono molteplici tendenze, non sempre organicamente sintetizzabili. Sono evidenti influenze orientali e puniche, ma soprattutto le influenze greche, frutto degli scambi commerciali con le città meridionali della Magna Grecia. Ne derivò un’arte con alti contenuti estetici, meno naturalistica di quella greca, ma con una maggiore tendenza al realismo.

L’arte classica secondo Roma

 La definizione di arte romana è stata molto controversa, ed ha subito notevoli revisioni critiche. La cultura europea ha scoperto l’arte greca solo dopo il XVIII secolo. E da quel momento, chiarito meglio il contributo greco alla costruzione dell’arte classica, si è svalutata l’arte romana, apparsa solo una copia, o al meglio un epigono, dell’arte greca. Oggi, più attente valutazioni dei fenomeni artistici del passato, hanno portato a rivalutare il contributo artistico romano, ricollocandolo nella sua giusta prospettiva.

Di fatto, un’arte romana, intesa come stile autonomo ed originale, non è mai esistita. È esistita un’arte prodotta a Roma: questa arte è stata etrusca, fino al I secolo a.C.; è divenuta ellenistica dopo questa data. Roma non ha elaborato un suo stile, ma ha sfruttato gli stili delle culture etrusche ed ellenistiche, dando loro un inedito scopo e significato. Parlare solo di scopi utilitaristici è riduttivo. La cultura romana si differenzia da quella greca per una costante di fondo: crede alla storia e non al mito.

Storia e mito hanno in comune la forma di rappresentazione: il racconto. La differenza non sta nel fatto che la storia è racconto di fatti veri, mentre il mito è racconto di cose false. La differenza è che il mito racconta cose universali, la storia racconta cose particolari. Il racconto ha sempre la funzione di insegnare, e pertanto sia la storia che il mito insegnano. Ma, mentre la storia insegna ciò che è avvenuto nel passato, dandoci le coordinate del presente, il mito insegna i grandi fatti esistenziali e metafisici, dando le coordinate dell’esistenza e dell’immutabilità nella condizione umana.

Storia e mito servono, in sostanza, a due cose diverse. La categoria del mito è più funzionale a chi, come i greci, vuole conoscere, capire e spiegare. La categoria della storia è più funzionale a chi, come i romani, vuole legittimare e conservare il frutto del proprio passato, ossia l’impero costruito. La storia, come categoria di pensiero, è legata al tempo molto più che il mito. La storia ha fiducia nella categoria del progresso, inteso come evoluzione, e coltiva la religione della memoria.

Ed è da queste premesse che l’arte romana differisce dalla greca. Non la rappresentazione statuaria di atleti, simbolo della bellezza ideale (mito dell’uomo perfetto), ma nell’arte romana troviamo il ritratto, ossia la memoria del singolo, reale protagonista della storia. Non l’uomo universale, ma l’uomo particolare. Ed ovviamente, la narrazione di fatti storici divenne per la prima volta autonoma categoria di rappresentazione. I cicli narrativi concepiti sulle colonne istoriate o sugli archi trionfali, erano sconosciuti all’arte greca. Così come lo erano cippi e iscrizioni funerarie.

Il passaggio dal mito alla storia, dall’universale al particolare, dal bello ideale al ritratto, dal momento pregnante alla narrazione, fanno giustamente considerare l’arte romana più realista dell’arte greca. Ma cambiò, in sostanza, anche il fine dell’arte. Non più una rappresentazione tesa al bello e alla conoscenza, ma tesa agli scopi utilitaristici che ha sempre la rappresentazione del passato: conservare la memoria, utilizzandola per la propaganda di valori politici. E quindi, l’arte romana, potenzialmente volta ad un pubblico meno aristocratico ma più popolare, rispetto all’arte greca divenne non solo più realista, ma anche più popolaresca. In sostanza, rispetto all’arte greca, l’arte romana perse il fine estetico, per trovare un fine etico. E non è un caso, se si pensa che i greci ci hanno lasciato in eredità la filosofia, mentre i romani ci hanno lasciato in eredità il diritto.

Questo per ciò che riguarda le arti figurative. Lì dove invece i romani mostrarono originalità ed inventiva fu nell’architettura. Questa arte, per il suo fine pratico, rispondeva meglio alle esigenze di una grande organizzazione civile come era l’impero romano. E nell’architettura i romani si applicarono più che in altre arti.

A differenza dei greci, non adottarono il sistema trilitico, ma quello ad arco, che, con minore impiego di materiale, consentiva di realizzare maggiori superfici coperte. L’architettura romana, infatti, spaziò in un maggior numero di tipologie di edifici (dalle case ai templi, dalle terme alle basiliche, dagli anfiteatri e alle ville), rispetto a quella greca, che invece sviluppò un solo tipo di edificio: il tempio. Tuttavia, anche nell’architettura, i romani furono debitori verso i greci di un importante aspetto stilistico: gli ordini architettonici. La perfezione degli ordini dorico, ionico e corinzio conquistò i romani, che non esitarono ad utilizzarli, pur se costruivano i loro edifici con la tecnica dell’arco. Anzi, l’impiego che essi fecero degli ordini – come elemento decorativo ma soprattutto come strumento di progettazione modulare – coniugandolo alla statica dell’arco, perfezionò ulteriormente il linguaggio classico dell’architettura, rendendolo valido per una infinità di soluzioni, che l’architettura occidentale ha continuato a sperimentare fino ai giorni nostri.

L’arte romana esaurì la sua vitalità agli inizi del IV secolo. Ai tempi di Costantino avvennero due eventi che avrebbero dato una svolta improvvisa al mondo antico. Nel 313, con l’editto di Milano, avvenne la conversione dell’impero romano al cattolicesimo. Nel 330, sempre l’imperatore Costantino spostò la capitale dell’impero da Roma a Bisanzio. L’arte antica si diramò in due direzioni, che presto avrebbero totalmente modificato, e rinnegato, i principi dell’arte classica. In occidente la direzione fu quella dell’arte paleocristiana, agli inizi, e medievale, in seguito. In oriente, invece, l’eredità dell’antico fu raccolta dall’arte bizantina.

Di fatto, l’arte romana, in questa svolta scomparve definitivamente. E con la fine dell’arte romana, dopo circa mille anni, si concluse la parabola dell’arte classica, iniziata dai greci nel VII secolo a.C. Si concluse quella ricerca formale basata sui principi del naturalismo, dell’equilibrio, dei valori estetici, per essere sostituita da un’arte antinaturalistica e alla ricerca di nuove forme di espressione, per i nuovi contenuti morali imposti dall’egemonia della religione cattolica. Solo con il Rinascimento, si invertì nuovamente il segno dell’arte occidentale, reinterpretando l’eredità della cultura classica, e facendola rivivere in una nuova stagione artistica che scelse nuovamente i principi ispiratore dell’arte classica: il naturalismo, l’equilibrio compositivo, la ricerca del bello e, attraverso essa, della conoscenza.

Metodi costruttivi romani

A differenza dei greci, i romani furono dei grandi costruttori, applicando le loro capacità tecniche alla realizzazione di numerose costruzioni dalle molteplici tipologie. Ma non si limitarono solo all’architettura. Essi crearono le prime grandi infrastrutture del territorio: le strade e gli acquedotti. Costruirono numerose città, applicando il sistema ortogonale già sperimentato da Ippodamo da Mileto, creando un sistema urbano di piccoli e grandi centri, che ebbe notevole estensione. Notevole fu anche la ripartizione del territorio in proprietà agrarie dalla forma regolare, che prese il nome di «centuriazioni». Questa suddivisione in appezzamenti, seppure in maniera frammentata sopravvive tutt’oggi nell’orientamento delle attuali divisioni proprietarie. In pratica, i romani ebbero una visione molto precisa del territorio, che essi utilizzarono quasi totalmente, modificandolo e rendendolo funzionale alle esigenze di un grande impero, quale essi crearono.

Nell’architettura il primo dato che differenzia i romani dai greci, fu l’impiego del sistema costruttivo ad arco, al posto del trilitico. Per i greci il problema di chiudere uno spazio era relativo, tant’è che essi concepirono il tempio più come un porticato di colonne, riducendo lo spazio interno ad una piccola cella. Per i romani il problema aveva coordinate totalmente diverse: per essi l’architettura non doveva «segnare» un luogo, ma «chiudere» uno spazio. Il sistema ad arco, quindi, consentiva la costruzione di volte, che ben si prestavano a coprire, pur con materiali di ridotte dimensioni, vasti ambienti. Il sistema trilitico, infatti, non consentiva la costruzione di grandi ambienti, se non infittendoli di colonne, come avveniva negli edifici egiziani.

Se l’arco è essenzialmente una struttura lineare (esso giace su un piano), la volta è un arco, o un insieme di archi, realizzati per occupare uno spazio tridimensionale. La volta di più semplice concezione è la cosiddetta «volta a botte»: essa in pratica è un insieme di archi successivi, che realizza una specie di galleria. Tale volta, per il suo sostegno, necessita di due muri laterali portanti. L’altra tipologia di volta, utilizzata già dagli antichi romani, era la «volta a crociera»: questa non si appoggia su due muri portanti, ma su quattro pilastri d’angolo. In tal modo, tale volta può essere aperta su tutti e quattro i lati, ed è quindi più funzionale per realizzare edifici a più navate.

La realizzazione di una volta a crociera avviene con la costruzione di quattro archi sui quattro lati della crociera. Per esigenze di carattere statico, questi quattro archi devono avere lo stesso punto di imposta e di chiave: in pratica devono avere la stessa altezza. In un arco a tutto sesto (si definiscono così gli archi che coincidono con una perfetta semicirconferenza) vi è una relazione determinata tra larghezza e altezza di un arco: la larghezza coincide con il diametro della semicirconferenza, mentre l’altezza coincide con il raggio. Da ciò si ha che in un arco a tutto sesto l’altezza è esattamente la metà della larghezza.

In una volta a crociera, poiché gli archi devono avere la stessa altezza, devono necessariamente avere la stessa larghezza. La distanza tra i pilastri (o le colonne) è uguale su tutti e quattro i lati, pertanto una volta a crociera determina uno spazio dalla pianta perfettamente quadrata.

L’altra tipologia di volta utilizzata dai romani fu la «cupola»: essa, in pratica, è determinata dalla rotazione di un arco intorno al proprio asse verticale. Si determina così una perfetta calotta semisferica, la quale però, per il suo sostegno, necessita di un muro perimetrale continuo, di forma circolare.

Da queste tipologie di coperture a volta, si hanno quindi delle forme planimetriche ben precise: una volta a botte può realizzarsi su piante rettangolari, una volta a crociera solo su piante quadrate, ed una cupola solo su piante circolari. Gli edifici costruiti dai romani hanno in genere planimetrie che si compongono di spazi riconducibili sempre a queste figure geometriche elementari, alle quali corrispondono le volte già dette.

Tipologie di volte

Le tipologie dell’architettura romana

Diverse sono le tipologie degli edifici che i romani realizzarono. Oltre alle grandi ville, urbane e rurali, molti sono gli edifici destinati a funzioni particolari: i fori erano dei mercati, o luoghi d’affari, composti da spazi chiusi, aperti e semi-aperti (porticati) che hanno una diretta discendenza dalle agorà greche; le terme erano edifici con ambienti dalle più diverse forme, destinati ai bagni in acque calde e fredde, agli esercizi ginnici, ai massaggi, ma anche a forme di socializzazione e di incontro (molte terme erano dotate anche di biblioteche e sale di lettura); le basiliche erano dei tribunali, in cui venivano esercitate le funzioni proprie della magistrature pubbliche.

I romani costruirono anche templi, che non si differenziano molto da quelli greci, se non per l’ubicazione: i templi romani sorgono, infatti, in contesti urbani, e non in posizione distacca, come avveniva per le acropoli greche. Come i greci, anche i romani costruirono dei teatri, ma mentre i greci sfruttavano le pendenze naturali delle colline per realizzare le gradinate, i romani, grazie alle loro capacità tecniche e all’impiego di archi e volte, costruivano teatri anche su siti pianeggianti, realizzando imponenti strutture per conformare la pendenza delle gradinate.

Un teatro è un edificio per rappresentazioni teatrali: l’azione scenica si svolge su un podio con alle spalle una quinta scenografica. Il teatro è pertanto un edificio dalla pianta semicircolare. L’anfiteatro è invece una struttura dalla pianta ellittica, che serviva non alla rappresentazione teatrale ma allo spettacolo di esercizi ginnici e gladiatori: esso è più assimilabile ai moderni stadi. L’anfiteatro più famoso rimane il Colosseo, fatto erigere dall’imperatore Vespasiano.

Tra le costruzioni tipiche dell’architettura romana vi sono gli archi trionfali. Monumenti dall’imponente mole, essi furono inizialmente eretti per simboleggiare una porta urbica, sotto la quale avveniva il passaggio delle legioni che tornavano vittoriose dalle campagne militari. Tali archi, in seguito, da trionfali divennero onorari, eretti in ricordo delle imprese, sia civili sia militari, degli imperatori. La loro tipologia è abbastanza semplice: si componevano di due enormi pilastri, in cui era aperto un arco, con un attico sovrastante. In seguito, come nell’arco di Costantino, i fornici divennero tre, dando luogo a due altri archi laterali più piccoli del centrale. Questi monumenti erano sfruttati per essere ricoperti di bassorilievi. Oltre alle iscrizioni dedicatorie e alle effigi e busti degli imperatori o altri personaggi o divinità, si componevano di pannelli scultorei in bassorilievo, che illustravano le imprese benemerite dell’imperatore.

Gli archi trionfali sono uno degli esempi più chiari della concezione architettonica romana: unire il sistema costruttivo ad arco con gli ordini architettonici greci. L’ordine architettonico non ha solo una funzione decorativa – le colonne, infatti, non hanno alcuna funzione statica per il sostegno del monumento –, ma ha soprattutto una funzione progettuale: crea la base per il proporzionamento dell’edificio. I romani, coniugando l’arco con gli ordini architettonici, hanno creato il linguaggio classico dell’architettura, che resterà patrimonio per le epoche successive, quando queste, come il Rinascimento o il Neoclassicismo, guarderanno all’antichità per ritrovarvi ideali estetici senza tempo.

Colosseo

Arco di Costantino a Roma

Le murature romane

Molte delle realizzazioni romane furono loro consentite dall’utilizzo di un materiale da costruzione particolare: la pozzolana. Con tale termine essi indicavano un materiale di origine argillosa proveniente da Pozzuoli. In pratica la pozzolana era un legante idraulico molto simile al moderno cemento. Esso consentiva di conglobare pietre e lapilli vari, che, grazie alla pozzolana – quando questa asciugava –, erano unite in un unico conglomerato. Con ciò si potevano realizzare volte resistenti ma molto più leggere di quelle realizzate con pietre o mattoni. Consentivano quindi di coprire luci notevoli, e richiedevano muri meno spessi. Inoltre erano più facili da realizzare, perché non richiedevano la sagomazione dei conci, ma si realizzavano mediante un’unica gettata di pietrame e pozzolana.

I romani furono molto attenti alla realizzazione delle murature, sperimentando diverse tecniche che utilizzarono in maniera molto artistica. Il principio delle loro murature si basava, in genere, sulla realizzazione dei cosiddetti muri a sacco. Il muro, in pratica, aveva un’anima interna fatta di pozzolana e lapilli, mentre le due facce esterne erano realizzate con materiali vari, che costituivano il paramento a vista. In base alla tecnica di realizzazione e ai materiali impiegati, le murature dei romani prendono i diversi nomi: opus incertum, se il paramento era realizzato con elementi lapidei di forma non regolare; opus latericium, se era realizzato con mattoni, i quali erano tagliati a metà lungo la diagonale e di forma triangolare erano inseriti di spigolo nel muro; opus tufaceum, se il materiale impiegato era di tufo; opus reticulatum, se il paramento era realizzato con cubetti di porfido, dalla forma approssimativamente tronco-conica, che erano messi in posizione rombica; opus mixtum, se il paramento si componeva di più tecniche diverse.

La maggior parte degli edifici romani è giunta a noi allo stato di ruderi, molti sono emersi solo da scavi archeologici, per questo solo dalle fondamenta possiamo riconoscere o ipotizzare le tipologie funzionali degli edifici. Ma l’aspetto integro di un edificio romano è per noi sconosciuto. Ciò non ci permette di apprezzare un aspetto, che pur dovrebbe avere un’importanza essenziale, nel valutare l’architettura romana: la qualità dello spazio interno.

A differenza dei greci, i romani costruivano soprattutto per conformare degli spazi interni: questi vanno valutati dall’ampiezza atmosferica, dalle luci e dalle ombre che vi si creavano, per effetto delle bucature che si aprivano all’esterno, dalla decorazione delle pareti, se in rivestimenti marmorei o ad affreschi su intonaci. Uno dei pochi edifici integri giunto fino a noi è il Pantheon: esso, con la sua enorme cupola, decorata all’interno a cassettoni e l’oculo centrale unica fonte di luce, ci suggerisce una concezione architettonica molto attenta ai risultati della percezione spaziale.

E, infatti, la tarda architettura romana ci suggerisce una capacità di controllo spaziale, che va molto di là della concezione dell’architettura come solo fatto costruttivo. Un edificio come il Mausoleo di Santa Costanza a Roma crea negli spazi delle intersezioni di luce ed ombre così affascinante, che non possono essere un risultato casuale di costruttori attenti solo alla statica dell’edificio. I romani stavano quindi per aprire un filone del tutto nuovo nell’architettura – la poetica dello spazio –, quando il loro impero crollò, dando luogo ad un’eredità culturale che sarà interpretata in modi e con esiti diversi in oriente, dall’impero bizantino, ed in occidente, dai regni barbarici.

opus reticulatum

opus mixtum

opus latericium

opus incertum

Pantheon

Pantheon pianta

Sezione del Pantheon, Roma

L’interno del Pantheon

Santa Costanza a Roma

Pianta, sezione e veduta dell’interno di Santa Costanza a Roma

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