Il Gotico

I normanni furono grandi costruttori di cattedrali, a loro si deve una tecnica costruttiva, che permise al romanico di evolversi nello stile gotico: le volte costolonate. La costruzione di una volta a crociera richiede una impalcatura lignea che riproduca per intero l’intradosso – ossia la superficie inferiore – della volta. Solo quando la volta sarà completata, potrà essere disarmata della struttura di sostegno. Ciò comportava un notevole impiego di legname, da montarsi con grande sapienza di incastri, così da riprodurre con esattezza la superficie su cui dovevano appoggiarsi i conci in pietra o in mattoni.
La scoperta dei normanni fu che una volta a crociera si compone non solo dei quattro archi perimetrali, ma anche di due archi in diagonale, che avevano in comune il concio in chiave. Questi due archi possono realizzarsi, quindi, indipendentemente da tutta la volta. Ecco che così, la volta a crociera può scomporsi in due fasi costruttive: prima la realizzazione dei quattro archi laterali e dei due diagonali; quindi il riempimento dei quattro triangoli sferici – detti unghie – che erano compresi tra gli archi realizzati. In tal modo la costruzione della volta poteva realizzarsi in fasi successive – ogni unghia poteva poi essere costruita indipendentemente dalle altre – con impalcature meno impegnative e più economiche.
La costolonatura degli archi, che costituivano le volte a crociera, portò a due risultati fondamentali: uno estetico, sul quale l’architettura gotica fondò molta della sua immagine; ed uno statico. Quest’ultimo fu forse il più notevole. In pratica fece capire che le strutture possono essere scomposte secondo linee di forze.
L’architettura romanica si basava sul principio statico di masse voluminose che venivano contrastate e sorrette da altre masse dalla notevole gravità. I normanni indicarono invece una nuova via: nelle masse e nei volumi i carichi e le forze si possono concentrare solo in alcune linee e punti, così da convogliare su di esse la resistenza strutturale dell’edificio. In pratica cominciarono a distinguere, in una struttura architettonica, le parti portanti – quelle che devono sorreggere i pesi propri e di altre membrature – da quelle portate – che sono in genere solo di riempimento e di chiusura degli spazi.
Ma la svolta decisiva per l’evoluzione dal romanico al gotico fu l’utilizzo dell’arco a sesto acuto. Rispetto all’arco a tutto sesto, l’arco acuto ha una geometria variabile: in esso l’altezza non è in funzione della larghezza, ma può assumere rapporti diversi. Nell’arco a tutto sesto l’altezza dell’arco è sempre pari alla metà della sua larghezza; in un arco a sesto acuto l’altezza dell’arco è sempre superiore alla metà della sua larghezza, ma di una quantità che può essere variabile.
L’arco a sesto acuto permise agli architetti medievali di esplicitare meglio la loro nuova concezione costruttiva, che si basava su un telaio strutturale concentrato in punti e linee di forze. Un arco, come dicevamo, scarica il proprio peso con forze inclinate. Queste forze tendono a ribaltare verso l’esterno i sostegni, che per resistere alla spinta devono avere un peso notevole. L’arco a sesto acuto, per via della sua particolare geometria, pur a parità di peso, rispetto ad un arco a tutto sesto scarica una forza meno inclinata rispetto alla verticale. Trasmette ai sostegni una spinta orizzontale minore. Cioè, l’effetto di ribaltamento verso l’esterno è inferiore, e pertanto i sostegni possono essere più snelli e leggeri.
Ciò, quindi, portò a due risultati notevoli per la realizzazione delle cattedrali. Le strutture potevano essere più alte e slanciate, favorendo la tendenza a realizzare costruzioni sempre più alte, e nel contempo, potendo concentrare la parte resistente dell’edificio in pilastri snelli, liberarono ampie superfici che non vennero occupate da murature ma da vetrate. La cattedrale gotica, rispetto a quella romanica, ridivenne un ambiente luminoso, e di una luminosità molto suggestiva, in quanto le vetrate erano sempre istoriate, con vetri dai colori vivaci.
Ma quando le cattedrali divennero troppo alte, la instabilità dei sostegni degli archi si ripresentò nuovamente. Una spinta laterale di un arco può anche essere molto contenuta, ma se essa sollecita un pilastro eccessivamente alto e snello, questa spinta è sufficiente a creare instabilità sul sottostante pilastro. La soluzione però, nella nuova logica strutturale, non poteva essere quella di ricorrere alla maggior gravità dei sostegni, aumentandone spessore e peso, ma di contrapporre alle forze destabilizzanti altre linee di forze resistenti. Ecco che così nacquero all’esterno delle cattedrali gli archi rampanti, che, come puntelli, partivano da terra, per andare a sostenere gli archi impostati ad altezze sempre più vertiginose.
Sul piano compositivo, poi, gli archi a sesto acuto permisero agli architetti di svincolarsi dal modulo quadrato che aveva condizionato le cattedrali romaniche. Infatti, con gli archi a sesto acuto la condizione statica di realizzare archi della stessa altezza può ottenersi anche con archi dalla larghezza variabile: in un arco acuto, l’altezza dell’arco non è strettamente correlato alla sua larghezza. Una volta a crociera con archi acuti può essere rettangolare, con una libertà di conformazione molto più ampia.
Ritornando quindi alle costolonature, queste, nell’architettura gotica, trovarono un impiego totale, correndo senza soluzione di continuità su tutte le parti dell’edificio – volte e pilastri – rendendo visibile quell’intrigo di linee-forze che costituivano lo scheletro portante dell’edificio, e sfruttando tale immagine a fini decorativi: in pratica la bellezza di queste cattedrali veniva manifestata nella mirabile concezione strutturale, mostrando con orgoglio l’intelligenza ingegneristica che ne aveva contraddistinto la realizzazione.
I germi della nuova architettura gotica sono visibili in alcune costruzioni normanne già al fine del XII secolo, ma l’edificio che per primo applicò il nuovo stile fu la cattedrale di Saint Denis, nell’Île de France costruita a partire dal 1130. Da questa data lo stile gotico si diffuse prima in Francia e poi in tutta Europa, soppiantando progressivamente lo stile romanico.
Il gotico divenne, progressivamente, lo stile dell’Europa nordica, trovando numerose applicazioni non solo nell’architettura religiosa ma anche civile della Francia, dell’Inghilterra, della Germania.
Il carattere più tipico del gusto gotico, fu l’accentuazione del linearismo, che si estese anche alle arti figurative. E in questo linearismo prevalse una tendenza alla verticalità e alla linea spezzata. Entrambe le caratteristiche erano racchiuse nell’arco a sesto acuto. Ma esso non fu l’unico arco utilizzato in questo periodo: molta fortuna ebbe anche l’arco polilobato, utilizzato in architettura soprattutto per l’apertura di bucature – finestre, balconi, portici, ecc. –, o nella costruzione di elementi scultorei decorativi – altari, baldacchini, pulpiti, ecc.
Altro arco dal gusto tardo gotico, fu l’arco «tudor», che ebbe fortuna soprattutto in Inghilterra.

Il Duomo di Milano

La Cattedrale di Nostra Signora di Strasburgo Francia

Cattedrale di Notre-Dame, rosone e vetrate del transetto nord. Chartres (Francia)

Il gotico in Italia

In Italia, il gotico trovò applicazioni molto limitate, dove l’arco acuto fu utilizzato non con le sue consequenzialità di logica strutturale, ma più come elemento di decorazione alla moda. Ne nacque un’architettura ibrida, più attenta agli effetti di decorazione plastica e pittorica che non alle invenzioni strutturali.
Le città che più si convertirono al gotico furono Siena e Venezia. La prima perché ebbe, nel corso del XIV secolo notevoli scambi diplomatici e culturali con la Francia, da cui importò un gusto artistico complessivamente gotico; la seconda, perché in questo periodo andò intensificando i suoi scambi culturali soprattutto con il mondo tedesco.
Un fenomeno di diffusione del gotico fu anche lo sviluppo degli ordini monastici, che si ebbe nel basso medio evo. Precedentemente, da Cluny, in Francia, già l’ordine cluniacense aveva diffuso la concezione architettonica romanica. Successivamente l’ordine cistercense, che ebbe un rapido sviluppo prima in Francia e poi in Europa a partire dal 1100, adottò uno stile gotico semplice ed essenziale. Gli unici esempi che ci rimangono in Italia di queste chiese gotico-cistercense sono le abbazie di Fossanova e Casamari nel Lazio. Ma un altro ordine monastico, l’ordine francescano, divenne in Italia mezzo di diffusione di uno stile gotico alquanto originale. Il gotico francescano, infatti, adottò nuovamente la copertura a capriate lignee, invece delle volte a crociera costolonate. Esempio di questa architettura è la chiesa di Santa Croce a Firenze.
Nell’Italia meridionale, l’introduzione dell’architettura gotica coincise con un’altra conquista, quella degli angioini, avvenuta nel 1266, quando Carlo d’Angiò sconfisse Manfredi di Svevia. Gli angioini introdussero nel regno di Napoli l’uso dell’arco acuto, ma qui fu impiegato con un materiale diverso, il tufo, che consentiva di realizzare strutture più leggere. E molte chiese gotiche dell’Italia meridionale trovarono, nell’uso degli archi ogivali in tufo e nelle coperture con capriate lignee, una cifra stilistica originale rispetto al gotico d’oltralpe.
Lo sviluppo dell’architettura gotica in Europa, portò a costruzioni sempre più ardite e complesse nel loro meccanismo strutturale. Le costolonature, che ne rendevano evidenti le linee forza, si moltiplicarono a tal punto, che il gotico del tardo XIV e del XV secolo prese il nome, in campo architettonico, di gotico fiorito. Tale stile trovò applicazioni notevoli soprattutto in Inghilterra, Francia e Germania.

La cattedrale di Santa Maria Assunta Duomo di Siena

Palazzo Ducale Venezia

Basilica di Santa Croce Firenze

Gentile da Fabriano

Gentile di Niccolò, detto da Fabriano dal luogo ove nacque (1370-1427), è stato uno dei maggiori esponenti del gotico internazionale. La sua formazione avvenne probabilmente nel clima del gotico presente in area marchigiana, tra Camerino e San Severino, ma abbandonò ben presto le Marche, lavorando nei maggiori centri dell’Italia centro-settentrionale: Firenze, Siena, Roma, Orvieto, Perugia, Venezia. Questo suo girovagare lo portò a conoscere ed assimilare diverse influenze dell’arte del suo tempo: nella sua pittura si riscontano elementi di cultura francese, fiamminga e tedesca, nonché, non ultimi, anche elementi della tradizione giottesca. Ma Gentile doveva avere davvero il polso dei tempi, e seppe adeguare il suo talento alle esigenze della committenza in maniera del tutto consapevole. Non fu un innovatore o uno sperimentatore, ma la sua arte fu lo specchio fedele del gusto di quei tempi, che chiedeva opere di preziosa fattura non necessariamente di razionale costruzione.
Prima opera nota è la «Madonna e santi», realizzata a Perugia ma oggi conservata a Berlino. Scomparsi quasi tutti gli affreschi da lui realizzati, in particolare a Venezia e Brescia, sopravvivono diverse tavole che ci danno comunque una conoscenza sufficiente del suo linguaggio pittorico: tra questi il «polittico di Valle Romita» conservato a Brera, e il «Polittico Quaratesi», oggi smembrato tra diversi musei.
Sua opera più celebre è un’altra tavola, oggi conservata agli Uffizi: l’«Adorazione dei Magi» del 1423. In questa celeberrima tavola Gentile compone quasi un’antologia delle sue diverse componenti stilistiche, armonizzate in un’opera di grande suggestione.
Concluse la sua attività a Roma dove, al servizio di papa Martino V, realizzò diverse opere, tra cui un ciclo di affreschi in San Giovanni in Laterano. Questo ciclo, oggi perduto, fu interrotto per la sua improvvisa morte e fu completato da Pisanello. Quest’ultimo può essere considerato il vero erede della pittura di Gentile, nonché l’ultimo esponente italiano di spicco del gotico internazionale. Ma la pittura di Gentile ebbe una influenza notevole su molti pittori italiani del Quattrocento, tra cui il veneziano Jacopo Bellini o il ferrarese Cosmé Tura, innestando i suoi elementi stilistici tardogotici anche nella formazione dei primi artisti rinascimentali.

Adorazione dei Re Magi

Adorazione dei Re Magi

Questa tavola fu realizzata da Gentile da Fabriano per Palla Strozzi, uno dei personaggi più ricchi della Firenze del tempo. Al centro della tavola, probabilmente, Gentile inserisce anche il ritratto del committente: è il personaggio con il falcone in mano alle spalle del Re in piedi. Alla sua destra è invece il ritratto del figlio Lorenzo.
Questa tavola è un’autentica festa per gli occhi: essa deve trasmettere una sensazione di preziosa e ricca eleganza. È ovvio l’intento autocelebrativo dello Strozzi, che attraverso la ricercatezza di questa opera manifesta la sua potente ricchezza. Nell’immagine, infatti, il tema sacro è quasi un pretesto per inscenare una ricca parata di caccia: momento mondano sicuramente prediletto dai ricchi e dai nobili del tempo. Nel quadro compare un cane, in basso a destra, e molti cavalli immediatamente dietro; ma vi sono anche due scimmie, in alto quasi al centro, sedute su dei dromedari, degli uccelli, in cielo, e moltissimi altri cavalli nelle lunghe parate rappresentate nelle tre lunette superiori. Vi è ovviamente anche il bue e l’asinello nella grotta, e vi sono poi alberi e fiori, che Gentile inserisce anche nelle cornici modanate che racchiudono la tavola centrale. Questa ricchezza di elementi botanici e animali è tipica del gusto artistico che si avverte nel tardo gotico. Elementi che vengono sempre rappresentati con una precisione illustrativa da manuali scientifici.
I personaggi sono tanti, ed hanno caratterizzazioni fisionomiche differenziate, particolare questo che dimostra l’influenza subita dalla pittura nordica, che di certo Gentile ebbe modo di conoscere nel suo soggiorno veneziano. Ma di gusto tardo gotico è sicuramente la ricchezza delle vesti, dei turbanti e delle bardature dei cavalli. In questi particolari, trattati in maniera molto minuta e particolareggiata con il tipico tratto calligrafico del tempo, si ritrovano gli effetti più preziosi di questa tavola. In realtà l’immagine, ad un colpo d’occhio complessivo, mostra diverse incongruenze che la rendono implausibile, soprattutto sul piano spaziale. Le figure si accalcano senza trovare un reale spazio di profondità dove collocarsi. Si osservi il particolare della grotta con il bue e l’asino. A parte l’innaturale forma della grotta, che sembra più un guscio d’uovo che una fenditura in una roccia, non si riesce a capire dove sia lo spazio nel quale si colloca l’asino. Anche lo spazio del cielo, nel quale compare la stella cometa posta proprio sulla testa di San Giuseppe, appare troppo schiacciato in basso e sul piano anteriore di rappresentazione, anche perché i cortei che si snodano in lontananza danno l’illusione di un orizzonte alto, che contrasta in maniera totale con la presenza della stella così in basso.
In sostanza alla scena manca la sintesi dell’unico punto di vista, grande conquista della pittura rinascimentale che in quegli anni nasceva. Ma non è un difetto solo di Gentile: tutta la pittura tardo gotica, compresa quella fiamminga, non ha ancora compreso l’importanza di riferire la scena ad un solo punto di vista, così che le loro opere, in realtà, andrebbero letti come tanti frammenti autonomi, anche quando apparentemente appartengono alla stessa scena.
Ma Gentile non era del tutto estraneo allo stile fiorentino che derivava da Giotto. Si osservi la scenetta di destra nella predella, raffigurante la «Presentazione al tempio»: qui la costruzione dello spazio è molto più razionale e sembra quasi dialogare direttamente con gli affreschi che Masaccio avrebbe realizzato in quegli anni nella Cappella Brancacci. Segno quindi che Gentile aveva gli strumenti giusti per potere essere uno dei primi pittori rinascimentali, ma, non solo per i limiti della sua formazione giovanile, la sua pittura fu calibrata soprattutto al gusto della committenza che, in queste opere, cercava soprattutto l’evocazione di un clima favoloso e fantastico, visto attraverso la lente della ricchezza di linee sinuose e colori smaglianti e luminosi.

Pisanello

Antonio Pisano, detto Pisanello (1380-1455 ca.), può essere considerato l’ultimo artista tardo gotico attivo in Italia. Figura, se vogliamo, anacronistica, in quanto si trovò ad operare in un periodo in cui all’arte avevano impresso una svolta radicale gli artisti fiorentini che inventarono il rinascimento. Pisanello, invece, memore della sua formazione basata sull’arte di Gentile da Fabriano e di Michelino da Besozzo, non si allontanò mai dallo stile tardo gotico. Ma il fervore di riscoperta dell’antico, comune alla cultura italiana del tempo e non solo in campo artistico, lo coinvolse soprattutto nella sua attività di medaglista. Rifacendosi alla medaglistica romana, Pisanello fu l’artista che introdusse in Italia, nel Quattrocento la moda del ritratto di profilo. Questa tipologia di ritratto fu infatti denominata «all’italiana», per distinguerla dal ritratto fiammingo nel quale il volto era invece rappresentato a tre quarti.
Dalla sua città d’infanzia, Pisa, l’artista si portò ben presto a Verona, da dove poi si spostò in molte città e corti, dove la sua arte era molto richiesta. Tra il 1409 e il 1415 operò a Venezia, collaborando con Gentile da Fabriano agli affreschi del Palazzo Ducale, affreschi oggi perduti. Nel 1422 era invece a Mantova, dove inizia la attività di pittore di corte dei Gonzaga. Nel 1426, a Verona, realizzò due Arcangeli e un’Annunciazione per il monumento funebre a Niccolò Brenzoni. Tra il 1431 e il 1432 fu invece a Roma per completare gli affreschi di Gentile da Fabriano in San Giovanni in Laterano, affreschi anche questi distrutti. La sua attività è poi proseguita tra Verona, Mantova e Ferrara, intervallata da un breve soggiorno a Napoli nel 1449. In questa sua ultima fase, la pittura di Pisanello si affranca dalle influenze di Gentile, per assorbire una visione artistica che risente della nascente arte rinascimentale, ma filtrata soprattutto da artisti di transizione quali Paolo Uccello, Masolino da Panicale o Lorenzo Ghiberti. Ciò è avvertibile soprattutto nei mirabili affreschi realizzati a Verona, di cui ci rimane un frammento con «Congedo di San Giorgio dalla Principessa». Ma la sua arte rimane legata ad una visione artistica nella quale la sintesi della scena viene comunque sacrificata all’analisi del dettaglio, realizzato con quel gusto calligrafico tanto caro alla cultura figurativa tardo gotica.

Visione di Sant’Eustachio

Pisanello, Visione di Sant’Eustachio, 1450 ca., National Gallery, Londra

Sant’Eustachio era un cavaliere dell’esercito romano di nome Placido. Durante una caccia, fu attirato da un cervo al quale apparve con un crocefisso tra le corna. La miracolosa apparizione fu accompagnata dalla voce di Cristo che gli disse di essergli apparso per salvarlo. Placido si convertì e assunse il nome di Eustachio.
Questa storia, riferita da Jacopo da Varazze nella sua «Legenda aurea» (una raccolta di vite di santi scritta nel XIII secolo) era molto popolare ai tempi, e fu il soggetto scelto da Pisanello per questa tavola. Come era abitudine del tempo, la vicenda viene attualizzata nell’immagine: il soldato romano diviene in questo quadro un nobile signore del XV secolo. Il suo vestito, l’acconciatura del cavallo, ma anche l’ambientazione, ci illustrano in realtà quella che doveva essere una battuta di caccia dei tempi contemporanei.

Al quadro manca una unitarietà di costruzione prospettica: i vari particolari si sommano senza riuscire realmente ad amalgamarsi. L’effetto più straniante di tutti è che il pittore rappresenta tutte le figure (Sant’Eustachio a cavallo, il cervo, i cani e tutti gli altri animali) nettamente di profilo. Ciò presuppone un punto di vista basso. Il paesaggio in cui sono inserite le figure ha invece un punto di vista molto alto: è una vista nettamente dall’alto in giù, tanto che nella parte superiore del quadro, al posto dell’orizzonte, troviamo un laghetto sul quale galleggiano dei cigni. Questo è un particolare comune a tutti i pittori tardo gotici, fiamminghi e nordici in genere, che cercano di applicare la prospettiva senza averla compresa del tutto: in pratica è come se usassero, sempre, due punti di vista: uno basso per le figure, uno nettamente più alto per lo spazio nel quale le figure si inseriscono. Ciò crea delle ambiguità visive con effetti molto singolari e in apparenza decisamente irrazionali.
Ma il quadro di Pisanello è un’autentica fiaba: l’armonia delle varie tonalità di verdi e di bruni creano un’immagine che già nell’impasto cromatico è di grande suggestione. In questo piccolo angolo di paesaggio vi sono in realtà tanti piccoli quadri che devono essere guardati separatamente: ogni animale ha il suo piccolo microcosmo, nel quale si percepisce un’armonia tra mondo animale e vegetale di intensa poesia.

Lorenzo Ghiberti

Lorenzo Ghiberti (1378-1455) fu scultore e orafo e ha legato il suo nome soprattutto alla realizzazione delle porte di bronzo del Battistero di Firenze. Significativa è stata la sua affermazione, avvenuta nel concorso bandito nel 1401, al quale parteciparono anche Jacopo della Quercia e Filippo Brunelleschi. La scelta caduta su di lui dimostra come la cultura del tempo era ancora orientata su parametri stilistici tardo gotici. Ma la vita e l’evoluzione artistica del Ghiberti è stata molto complessa, partecipando anch’egli alla nascita dell’arte rinascimentale, se non altro per la vicinanza che avuto con Filippo Brunelleschi e Donatello, i veri innovatore dell’arte fiorentina in quegli anni. In particolare contribuì anch’egli al gusto archeologico di riscoperta dell’antico, e cercò, seppure in maniera incerta, di introdurre la prospettiva nelle sue immagini.
La maggior parte della sua attività è ruotata intorno alle due porte realizzate per il Battistero fiorentino. Dopo il concorso, vinto nel 1401, è stato impegnato nella realizzazione della sua prima porta fino al 1424. L’anno successivo gli fu commissionata l’altra porta, quella detta «del Paradiso», che pose in opera solo nel 1452, pochi anni prima di morire.
Ma accanto alle porte, per le quali ha lavorato ben cinquant’anni, ha realizzato altre opere di notevole importanza, quali tre statue in bronzo per le nicchie esterne di Orsanmichele, il fonte battesimale di Siena, nonché, sempre per il duomo fiorentino, l’Arca dei Tre Martiri e l’Arca di San Zanobi.
Fu anche scrittore di cose d’arte, redigendo tre libri, i «Commentari» (l’ultimo incompiuto), nei quali per primo trattò la storia dell’arte italiana, partendo da Giotto e trattando delle maggiori personalità artistiche del Trecento e Quattrocento.

Porta nord del battistero di Firenze

Andrea Pisano, Porta sud del Battistero di Firenze, 1330-36

Lorenzo Ghiberti, Porta nord del Battistero di Firenze, 1401-24

Il Battistero di Firenze è costruzione che risale al periodo romanico. Nel corso del Trecento, seguendo una moda che aveva avuto larga fortuna nel basso medioevo, anche per questo edificio sacro fu commissionata una porta di bronzo. L’esecuzione fu affidata allo scultore Andrea da Pontedera, detto Andrea Pisano. Questa porta, realizzata tra il 1330 e il 1336, si compone di ventotto riquadri, in ognuno dei quali è inserita una cornice quadrilobata (anche nota come «compasso gotico») che racchiude una scena tratta dalla vita di San Giovanni Battista, santo al quale era dedicato il Battistero. La porta di bronzo di Andrea Pisano riscosse grande ammirazione, tanto che fu presa a modello per realizzare una seconda porta di analoga impostazione. Così nel 1401, l’Arte della Lana, la Confraternita che raccoglieva le personalità più ricche di Firenze e che finanziava i lavori nella fabbrica del Duomo, bandì un concorso per realizzare una seconda porta di bronzo, analoga a quella del Pisano. Infatti ai concorrenti venne assegnato come tema il «Sacrificio di Isacco» da realizzarsi nelle medesime dimensioni e con lo stesso compasso gotico delle formelle della porta di Andrea Pisano. L’intento di mantenere una continuità stilistica con la porta già esistente era evidente. Al concorso parteciparono diversi scultori del tempo, tra i quali Lorenzo Ghiberti, Filippo Brunelleschi, Jacopo della Quercia, Simone da Colle Val d’Elsa, Niccolò di Luca Spinelli, Francesco da Valdambrino e Niccolò di Pietro Lamberti. La vittoria fu assegnata a Lorenzo Ghiberti, che così ebbe l’incarico della realizzazione di questa porta.

Lorenzo Ghiberti, Sacrificio di Isacco, 1401, Museo Nazionale, Firenze

Filippo Brunelleschi, Sacrificio di Isacco, 1401, Museo Nazionale, Firenze

Il confronto tra la formella di Lorenzo Ghiberti e quella di Brunelleschi evidenzia come la visione artistica tra i due protagonisti era molto diversa. Il primo compone una scena nettamente ripartita sul piano della rappresentazione. In pratica divide il riquadro in due parti verticali distinte: in uno mette Abramo e Isacco e di sopra l’Angelo che interviene a bloccare il sacrificio di Isacco; nell’altro inserisce le due figure dei servi con l’asino e di sopra uno scorcio paesaggistico. L’immagine viene quindi composta con una chiarezza evidente: ogni cosa ha uno spazio che non interferisce con altri. La formella di Brunelleschi ha invece altra idea compositiva. Nel piccolo spazio a disposizione egli cerca di inserire più piani di profondità: un primo piano contiene i due servi con l’asino (da notare quello che si abbassa e si volta a guardare indietro, dando la sensazione precisa dello stacco tra il piano anteriore e quelli retrostanti); un secondo piano contiene la scena principale, mentre un terzo piano, sulla destra, dà l’illusione di un paesaggio in lontananza. In pratica, mentre Ghiberti compone le parti della scena sul piano, Brunelleschi le dispone in profondità, sfruttando lo spazio tridimensionale. Secondo molti storici, con questa formella inizia la vicenda dell’arte rinascimentale. Ma, in quel 1401, era difficile immaginare quali sviluppi avrebbe avuto l’arte fiorentina, e la formella di Ghiberti dovette apparire più rassicurante proprio perché più in linea con la tradizione gotica che allora andava per la maggiore.
Il Ghiberti, avuto l’incarico, si dedicò per oltre un ventennio alla realizzazione di questa porta, terminata solo nel 1424. Creò una bottega di modellatori e fonditori in bronzo (la prima del genere che nacque a Firenze), nella quale si formò un’intera generazione di artisti fiorentini, tra cui Donatello, Michelozzo, Masolino da Panicale, Paolo Uccello.

Lorenzo Ghiberti, Pilato si lava le mani, formella della Porta nord del Battistero

La porta, come quella di Andrea Pisano, si compone di 28 formelle: 20 sono dedicate alla Vita e Passione di Cristo, mentre otto formelle, collocate in basso, rappresentano i Quattro Evangelisti e i Quattro Dottori della Chiesa. L’ispirazione alla porta di Andrea Pisano è molto evidente, ma di nuovo gusto sono molti particolari, sia nelle architetture, più costruite in prospettiva, sia nella modellazione dei corpi, di ispirazione più classica. Elementi questi già protorinascimentali. Ma il gusto tardo gotico di Lorenzo Ghiberti è evidente soprattutto nella cura dei particolari e dei dettagli, nonché sui ritmi compositivi ancora giocati sugli intrecci di motivi lineari sinuosi.
La porta del Ghiberti riscosse grande successo, tanto che la porta di Andrea Pisano fu tolta dal portale centrale (quello che guarda verso il Duomo), per collocarvi la nuova realizzata dal Ghiberti. Ma anche questa porta rimase in questo posto per pochi decenni: quando fu realizzata, sempre dal Ghiberti, la terza porta, detta «del Paradiso», fu quest’ultima ad essere collocata nel portale centrale e la precedente porta del Ghiberti fu collocata nel portale nord, ove è tuttora.

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