Cimabue

Il pittore fiorentino Cenni di Pepo soprannominato Cimabue fu uno dei principali protagonisti della pittura italiana della fine del Duecento, così come ci testimonia anche Dante in un famoso passaggio della Divina Commedia (Credette Cimabue ne la pittura/tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,/sì che la fama di colui è scura – Purg. XI, 94-96). Poche le notizie della sua vita: la sua attività è documentata tra il 1272 e il 1302. Secondo il Vasari fu egli il primo pittore italiano a distaccarsi dallo stile bizantino per dar vita al nuovo linguaggio pittorico italiano. In realtà Giorgio Vasari tendeva a sopravvalutare la portata storica del contributo fiorentino al rinnovamento pittorico italiano, mentre la presenza a Roma di Cimabue nel decennio ’70 lo colloca in stretto rapporto con l’ambiente pittorico romano dominato in quegli anni dalle figure di Pietro Cavallini e Jacopo Torriti. Fondamentali alla formazione di Cimabue furono anche due pittori fiorentini quali Coppo di Marcovaldo e Giunta Pisano, i cui modi tardo bizantini furono proprio il punto di partenza dell’evoluzione stilistica di Cimabue.

Ma la pittura del maestro fiorentino se ne distaccò per due parametri fondamentali: la maggiore resa volumetrica delle figure attraverso un chiaroscuro di grande forza plastica e la ricerca di una umanizzazione delle figure che rompe definitivamente con la ieraticità delle immagini bizantine.

Non molte le sue opere pervenutici, alcune delle quali rovinate anche da recenti eventi, quale l’alluvione a Firenze del 1966 che produsse gravi danni al suo Crocefisso della Chiesa di Santa Croce. Diverse le sue opere su tavola, mentre la sua produzione ad affresco si concentra nei lavori eseguiti per le due basiliche di San Francesco ad Assisi.

 Crocefissi di Arezzo e S. Croce


Cimabue, Crocefisso, 1270, S. Domenico, Arezzo

 Il corpus pittorico di Cimabue appare molto controverso, in quanto non abbiamo molte opere sicuramente autografe dell’artista. Unica opera certa è solo la figura a mosaico di San Giovanni realizzata nell’abside del Duomo di Pisa. Tra le opere che la critica ha unanimemente attribuito a Cimabue ci sono due grandi Crocefissi su tavola: uno realizzato per la chiesa di San Domenico ad Arezzo, forse tra il 1265 e il 1268, e uno per la chiesa di Santa Croce a Firenze, realizzato intorno al 1272. Lo schema compositivo è quello già utilizzato dai famosi precedenti di Giunta Pisano e Coppo di Marcovaldo, ma in Cimabue la costruzione della figura del Cristo appare decisamente originale. Cimabue rinuncia all’apparato narrativo che, in genere, veniva collocato negli sportelli, nel piede, nei bracci e nella cimasa. Utilizza solo i bracci per inserire le due figure della Madonna e di San Giovanni. La sua attenzione si concentra solo sulla figura del Cristo, al quale cerca di dare un risalto plastico notevole, attraverso un forte chiaroscuro, così da dare l’illusione che il corpo del Cristo non fosse un’immagine piatta dipinta, ma quasi una scultura lignea.


Cimabue, Crocefisso, 1270, S. Croce, Firenze

Nel crocefisso di Arezzo la derivazione dallo stile bizantino è ancora evidente, anche nella lumeggiatura dorata con la quale tratta il perizoma che copre il Cristo o i mantelli delle due figure della Madonna e di San Giovanni. Nel Crocefisso di Santa Croce, purtroppo notevolmente danneggiato dall’alluvione che colpì Firenze nel 1966, il corpo del Cristo appare molto più solido e decisamente più naturalistico. Sono scomparsi quei passaggi chiaroscurati troppo netti, e il corpo acquista una morbidezza più delicata e realistica. Da notare che in questa figura anche il perizoma acquista una trasparenza del tutto inedita nella pittura coeva, segno di una maturità nel controllare il colore che è decisamente originale.

Un particolare unifica però i due crocefissi, rivelandosi al contempo come una delle caratteristiche più tipiche dell’arte di Cimabue: l’inarcamento molto accentuato della figura del Cristo. Cimabue sfrutta quasi del tutto lo sportello laterale di destra, portando la figura del Cristo ad essere tangente con il bordo estremo della tavola. L’inarcamento della figura del Cristo era stato sfruttato dai pittori a lui precedenti per dare più drammaticità al momento rappresentato. Cimabue invece inarca il corpo di Cristo anche per dare più risalto volumetrico alla figura.

Maestà di Santa Trinità

In questa tavola, che secondo la tradizione Cimabue realizzò per la chiesa di Santa Trinità di Firenze e oggi conservata agli Uffizi, troviamo alcuni dei maggiori traguardi raggiunti dal maestro fiorentino. Essa è stata realizzata tra il 1280 e il 1290, in una fase quindi molto matura del percorso artistico di Cimabue. Il tema della Maestà in trono è molto diffuso in tutta la pittura del Duecento italiano, ed è una delle composizioni che, nella sua immanente ieraticità, più risente della influenza dello stile bizantino, dal quale i pittori italiani cercano di distaccarsi. Ed anche questa tavola del Cimabue risente dei grandi precedenti bizantini, conservandone alcuni tratti stilistici, in particolare la visione frontale, l’uso molto esteso del colore oro, nonché le lumeggiature dorate che utilizza per la veste della Madonna.

Ma la grande novità di questa pala d’altare sta soprattutto nella straordinaria costruzione spaziale, che viene impostata secondo una composizione del tutto inedita per il tempo. La Madonna siede su un trono che è quasi un’architettura, con il suo ritrarsi in una forma convessa, lasciando aprire al di sotto tre campate dal quale si affacciano quattro profeti. Nel suo complesso, questo trono così articolato sembra quasi la sezione di una cattedrale a tre navate, e non è quindi da escludere il significato simbolico del trono sul quale la Madonna siede e che quindi rappresenta la Chiesa.

Nelle tre nicchie sottostanti al trono si affacciano quattro profeti: ai due lati abbiamo Geremia e Isaia (il primo è quello a destra guardando), mentre nella nicchia centrale vi sono Abramo e David che rappresentano la dinastia dalla quale è disceso Gesù.

Ai lati della Madonna e del Bambino ci sono quattro angeli per parte, la cui collocazione spaziale appare decisamente inedita. Gli angeli non sono semplicemente uno sopra l’altro, ad occupare in verticale lo spazio ai lati del trono: ma appaiono come sfalsati in profondità. È questa la prima volta che ciò accade, con l’evidente intento di dare profondità spaziale all’intera costruzione spaziale dell’immagine. Del resto anche i due profeti Geremia e Isaia, nelle due nicchie in basso, con il loro alzare lo sguardo verso l’alto, già suggeriscono delle direzioni spaziali che sono di precisa tridimensionalità: essi non stanno “sotto” ma “davanti”. Quindi lo spazio non è pensato e realizzato sulla bidimensionalità della tavola, ma sulla scatola spaziale che visivamente avvertiamo oltre il piano della rappresentazione.

Il percorso della successiva arte italiana è così tracciato: in Giotto, e in tutti i suoi seguaci, il piano di rappresentazione diviene sempre più trasparente per aprirsi ad uno spazio virtuale, e tridimensionale, oltre il piano sul quale giace materialmente l’immagine.

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